At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8
La V Domenica di Pasqua ci presenta la prima parte del c.15 del Vangelo di Giovanni. Dopo essersi definito il bel Pastore, Gesù si descrive come la vera Vite, anello di congiunzione tra l’agricoltore (Dio Padre) e i tralci (i discepoli) uniti in un’unica comunione d’amore.
Nell’Antico Testamento l’immagine della vigna si riferisce generalmente al popolo d’Israele, a cui Dio è gelosamente legato e che è visto come uva nel deserto (Os 9,10), vite rigogliosa che dà sempre il suo frutto (Os 10,1), vigna pregiata, tutta di vitigni genuini (Ger 2,21). Isaia descrive questo come un rapporto sponsale, tale è lo zelo con cui il Signore si prende cura del suo popolo perché porti frutti e viva in pace. Tuttavia Israele risponde con infedeltà, idolatria, rattristando il suo agricoltore e provocando la sua ira. Nella continuità della storia della salvezza e di un Dio che non si stanca di farsi vicino agli uomini, Egli si lega a loro per mezzo del suo Figlio, a garanzia di un amore smisurato e che non si tira indietro. Gesù prende il posto di Israele affinché, innestati in Lui, portiamo frutto, a gloria di Dio Padre. Egli ci rigenera per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo con il battesimo («siete già puri»), ci consacra nella verità, ci abilita cioè a un culto che non conosce distanze, ci rende degni di Dio. Nati da unico ceppo, in termini vitivinicoli il capo a frutto, innervati dalla stessa linfa, formiamo oggi il popolo di Dio, ben oltre particolarismi e campanilismi di sorta.
At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8
La V Domenica di Pasqua ci presenta la prima parte del c.15 del Vangelo di Giovanni. Dopo essersi definito il bel Pastore, Gesù si descrive come la vera Vite, anello di congiunzione tra l’agricoltore (Dio Padre) e i tralci (i discepoli) uniti in un’unica comunione d’amore.
Nell’Antico Testamento l’immagine della vigna si riferisce generalmente al popolo d’Israele, a cui Dio è gelosamente legato e che è visto come uva nel deserto (Os 9,10), vite rigogliosa che dà sempre il suo frutto (Os 10,1), vigna pregiata, tutta di vitigni genuini (Ger 2,21). Isaia descrive questo come un rapporto sponsale, tale è lo zelo con cui il Signore si prende cura del suo popolo perché porti frutti e viva in pace. Tuttavia Israele risponde con infedeltà, idolatria, rattristando il suo agricoltore e provocando la sua ira. Nella continuità della storia della salvezza e di un Dio che non si stanca di farsi vicino agli uomini, Egli si lega a loro per mezzo del suo Figlio, a garanzia di un amore smisurato e che non si tira indietro. Gesù prende il posto di Israele affinché, innestati in Lui, portiamo frutto, a gloria di Dio Padre. Egli ci rigenera per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo con il battesimo («siete già puri»), ci consacra nella verità, ci abilita cioè a un culto che non conosce distanze, ci rende degni di Dio. Nati da unico ceppo, in termini vitivinicoli il capo a frutto, innervati dalla stessa linfa, formiamo oggi il popolo di Dio, ben oltre particolarismi e campanilismi di sorta.
La vite va incontro, anche più volte nell’arco di un anno, a minuziose operazioni di potatura, allo scopo di preservare i rami più resistenti e che siano naturalmente rivolti verso l’alto. Una produzione copiosa di foglie o di grappoli eccessivamente voluminosi non è garanzia della gustosità dell’uva. Così nel cammino spirituale il cristiano si libera di ciò che nutre soltanto il proprio ego e distoglie dal Signore. Lo fa però solo rimanendo in Lui, in una dipendenza che non lega ma si dispiega nella carità e permette di esercitare la fedeltà. Senza questo motivo tendiamo a restare con e sempre uguali a noi stessi, fedeli piuttosto a degli standard che la nostra rigidità impone, non il libero comandamento dell’amore dato da Gesù.
Le parole di Gesù fanno parte dei discorsi di addio che precedono gli eventi pasquali. Egli prepara i discepoli a fare i conti con la sua assenza, o meglio a una relazione diversa. Li attendono tempi duri in cui, venuta meno la bellezza del radunarsi in presenza attorno al maestro, dovranno affrontare la diffidenza degli Ebrei, le voci dissonanti dei falsi maestri, la dura persecuzione. Sarà necessario fare appello alle parole, ascoltate un tempo come profezie, anche senza comprenderle, che assumono significato nell’oggi. Su queste parole e sulla Parola incarnata che è il Cristo si gioca la nostra fede, si nutre il dialogo orante, si fonda la carità. Sì, perché la primizia del rimanere in Cristo è proprio l’amore per il prossimo, come suggeriscono i versetti successivi a questo brano. «Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità», esorta la seconda lettura, imparando da ciò che Gesù ha detto ma anche da ciò che Egli ha fatto.
Marco Giordano, V anno
Arcidiocesi di Otranto
marcorizio@yahoo.it
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