Questa V domenica di Pasqua si presenta a noi con una serie di immagini ben precise. È notte; siamo nel Cenacolo; Giuda che apre la porta ed esce, dopo aver preso il boccone intinto da Gesù e quelle parole: «Quello che devi fare fallo al più presto» (Gv 13,27).
Con questo brano inizia quello che è definito il “discorso di addio” (Gv 14-17,26), in cui Gesù rincuora i discepoli con la promessa di non lasciarli soli e del dono del Consolatore e di cui il vangelo di questa domenica ne è l’introduzione. All’inizio di questo cap. 13 Gesù, lavando i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-20), ha voluto lasciare ai discepoli un esempio: la reale manifestazione della signoria di Dio è nel donarsi; mentre negli ultimi versetti del capitolo (vv. 36-38) annuncia a Pietro quello che sarà il suo rinnegamento.
Sono emblematici i primi due versetti (vv. 31-32); è proprio la partenza di Giuda a mettere in moto gli eventi attraverso i quali sarà glorificato Dio. Perché il bene possa nascere, deve passare attraverso la morte e risurrezione di Cristo; qui si disvela il significato della sua morte, come quella croce, da simbolo di morte, diventa simbolo che genera vita. Al contempo, sottolinea qualcosa di imminente: la sua partenza. Una mancanza che, nel cuore dei discepoli può generare smarrimento, tristezza e incertezza circa il futuro. Ed è qui che Gesù chiama i suoi discepoli nel più tenero dei modi: “figlioli” (v. 33), ed è su questa figliolanza che si fonda sia la relazione filiale dei discepoli con Gesù e Dio, sia il rapporto di fratellanza tra i discepoli stessi.
Un rapporto vivo, concreto, che si realizza ancor più nella consegna che Egli fa loro: il “comandamento nuovo”, il comandamento dell’amore (v. 34). È un amore reciproco («gli uni gli altri»), dove nessuno è superiore all’altro; anzi, ognuno, proprio perché vicendevole, ha bisogno dell’amore dell’altro. Ma questa volta ha qualcosa di diverso, anzi, quasi del paradossale. Il metro di misura prima era amare il prossimo «come sé stessi» (Mt 22,39; Mc 12,3; Lc 10,27), che prende dal precetto antico dell’amore per il prossimo di Lv 19,18 con cui si esprimeva l’amore tipico dell’alleanza tra il popolo e Dio e tra i membri stessi del popolo; un amore misurato sull’amore per sé stessi. Ora la misura è più alta: «come io ho amato voi»; la “novità” sta proprio nell’esperienza di amore che i discepoli stessi hanno vissuto con Gesù, un amore fatto di totale donazione, riflesso dell’amore di Dio, che passa attraverso le difficoltà e la sofferenza, ma capace di generare vita. E proprio questo amore vicendevole diventa la più efficace testimonianza del Figlio di Dio e di chi appartiene a lui. L’amore gli uni per gli altri è la “prova del nove” per riconoscere i veri discepoli del Signore e di cui i santi sono mirabile esempio; quell’amore che sa farsi donazione e servizio all’altro, che accoglie.
Il Signore non smette mai di farci questo invito ad imitarlo nell’amore, tra di noi, nelle nostre realtà, che parla di noi, della nostra storia, della nostra identità e di chi vogliamo essere riflesso. Un amore che passa attraverso la sofferenza, ma che profuma di unità, elemento di cui, forse, oggi più che mai l’umanità ha bisogno.
Antonio del Grosso
V Anno
Arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo