In questa quarta Domenica del tempo di Pasqua, il Vangelo di Giovanni ci presenta Gesù come il Buon Pastore. Il brano si trova collocato tra il racconto della guarigione di un cieco nato (Gv 9, 1-41) e l’ultimo confronto pubblico con i Giudei (Gv 10, 22-39). Gesù in questo brano si identifica sia come la porta del recinto in cui il gregge si raccoglie sia come il pastore delle pecore. Queste due similitudini utilizzate da Cristo sono strettamente intrecciate tra loro, in quanto il riconoscimento del pastore autentico dipende dal suo passare attraverso la porta. Per le pecore riconoscere la porta è fondamentale, perché possano distinguere chi è pastore e chi non lo è. Identificandosi con la porta delle pecore, Gesù si definisce l’unica via di accesso delle pecore alla vita e di conseguenza, unica via legittima di accesso del pastore alle pecore. L’utilizzo dell’immagine della porta in duplice direzione (come ingresso verso il gregge e uscita verso la vita) è coerente: l’unica porta che le pecore sono chiamate ad attraversare è quella che le conduce con certezza ai pascoli nutrienti di vita. Conseguentemente se Gesù è venuto perché le pecore abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, egli si può ritenere porta delle pecore alla vite e dunque, unica via legittima di accesso alle pecore per chiunque volesse condurle al pascolo. Questa è l’intenzione e lo scopo con il quale si viene a determinare la differenza tra il pastore e le sue controfigure, tra chi accede al gregge per la porta e chi prova ad entrare da altre vie. Tutti coloro che sono venuti prima di Gesù, sono paragonabili a ladri e briganti che pensano di poter accedere al recinto da altrove. Le pecore, però, non li hanno ascoltati perché può essere pastore solo chi fa di sé stesso e diventa in sé stesso via di transito per la vita. Chi rende sé stesso via alla vita non può accedere al gregge, vuole solo sfruttarlo a proprio vantaggio. Il mercenario non ha nessun legame con il gregge, egli si limita a prendere dalle pecorelle latte, carne e lana è che è pronto a fuggire quando è sotto attacco. Il pastore, invece, essendo legato strettamente al Padre, è colui al quale il Dio d’Israele affida il suo gregge nel tempo del compimento della sua alleanza con il popolo. Dare la propria vita per le pecore è ciò che rende Gesù porta di vita e autentico pastore. Questa relazione d’amore di Gesù con le sue pecorelle lo spinge a vivere per loro fino a offrirsi in sacrificio per loro. Egli non si limita a curare le pecorelle che possiede, ma anche altre pecore da ricongiungere a sé. Questa rivelazione di Gesù pastore interpella il nostro essere Chiesa, come credenti siamo chiamati a cercare le pecore perdute e ad andare incontro a coloro che, pur volendo Gesù, non l’hanno ancora trovato.
Luciano Urso, IV anno
In questa quarta Domenica del tempo di Pasqua, il Vangelo di Giovanni ci presenta Gesù come il Buon Pastore. Il brano si trova collocato tra il racconto della guarigione di un cieco nato (Gv 9, 1-41) e l’ultimo confronto pubblico con i Giudei (Gv 10, 22-39). Gesù in questo brano si identifica sia come la porta del recinto in cui il gregge si raccoglie sia come il pastore delle pecore. Queste due similitudini utilizzate da Cristo sono strettamente intrecciate tra loro, in quanto il riconoscimento del pastore autentico dipende dal suo passare attraverso la porta. Per le pecore riconoscere la porta è fondamentale, perché possano distinguere chi è pastore e chi non lo è. Identificandosi con la porta delle pecore, Gesù si definisce l’unica via di accesso delle pecore alla vita e di conseguenza, unica via legittima di accesso del pastore alle pecore. L’utilizzo dell’immagine della porta in duplice direzione (come ingresso verso il gregge e uscita verso la vita) è coerente: l’unica porta che le pecore sono chiamate ad attraversare è quella che le conduce con certezza ai pascoli nutrienti di vita. Conseguentemente se Gesù è venuto perché le pecore abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, egli si può ritenere porta delle pecore alla vite e dunque, unica via legittima di accesso alle pecore per chiunque volesse condurle al pascolo. Questa è l’intenzione e lo scopo con il quale si viene a determinare la differenza tra il pastore e le sue controfigure, tra chi accede al gregge per la porta e chi prova ad entrare da altre vie. Tutti coloro che sono venuti prima di Gesù, sono paragonabili a ladri e briganti che pensano di poter accedere al recinto da altrove. Le pecore, però, non li hanno ascoltati perché può essere pastore solo chi fa di sé stesso e diventa in sé stesso via di transito per la vita. Chi rende sé stesso via alla vita non può accedere al gregge, vuole solo sfruttarlo a proprio vantaggio. Il mercenario non ha nessun legame con il gregge, egli si limita a prendere dalle pecorelle latte, carne e lana è che è pronto a fuggire quando è sotto attacco. Il pastore, invece, essendo legato strettamente al Padre, è colui al quale il Dio d’Israele affida il suo gregge nel tempo del compimento della sua alleanza con il popolo. Dare la propria vita per le pecore è ciò che rende Gesù porta di vita e autentico pastore. Questa relazione d’amore di Gesù con le sue pecorelle lo spinge a vivere per loro fino a offrirsi in sacrificio per loro. Egli non si limita a curare le pecorelle che possiede, ma anche altre pecore da ricongiungere a sé. Questa rivelazione di Gesù pastore interpella il nostro essere Chiesa, come credenti siamo chiamati a cercare le pecore perdute e ad andare incontro a coloro che, pur volendo Gesù, non l’hanno ancora trovato.
Luciano Urso, IV anno
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