Sin dalla nostra copertina, con la quale presentiamo ai nostri amici il nuovo numero di “In dialogo”, proviamo a raccontare il tema formativo che ci sta vedendo impegnati quest’anno: la cura della vita interiore.
L’espressione che abbiamo usato viene da lontano, dalla tradizione ebraica, che ha parlato dell’interiorità come della capacità che abbiamo di avvicinarci con l’orecchio del cuore alla “voce invisibile”. E’ la voce del Dio che nessuno può riuscire a vedere, ma che ci vien incontro facendoci udire la Sua Parola. Le note del pentagramma raffigurate in copertina si stanno allontanando dalle righe sulle quasi erano state posate trasformati in uccelli che stanno spiccando il volo dispiegando le ali, quasi a ricordarci che la Sua voce, per quanto udibile, ci orienta comunque all’invisibilità di Dio, non ne segna la possibilità di essere completamente posseduto da noi.
Restando in questa immagine, potremmo dire che la vita interiore consiste nell’imparare a fare silenzio, per fare spazio alla Voce. L’ascolto ha bisogno di attenzione e di tempo da parte nostra, e in un certo senso il silenzio assomiglia molto alla “cura” con cui si prepara l’ascolto. Io appartengo alla generazione che ha fatto in tempo a conoscere gli LP, i trentatrè giri, e che per ascoltare la musica doveva compiere una serie di passaggi e di gesti precisi: aprire il cofanetto del disco, prenderlo appoggiando il dito al centro di esso per non rischiare di rovinarne i solchi, appoggiarlo sul piatto dello stereo, e poi guidare il braccio del giradischi sul vinile, abbassandolo piano, perché esso doveva poggiarsi sul vinile che già era in movimento. Esisteva tutto un rituale, denso di silenzio e di attenzione. Nelle nostre case, c’era anche uno spazio fisico dedicato all’ascolto, occorreva creare una specie di rifugio musicale, di solito nella cameretta dove dormivamo e studiavamo, un posto fisso dove c’era il giradischi e lo spazio per conservare i dischi. Dovevamo anche curare tanti oggetti: pulire i dischi, stare attenti quando il disco finiva per alzare la puntina. Insomma dovevamo prenderci tempo e spazio, attenzione e cura. Per ascoltare i nostri cantautori preferiti, o la musica che accompagnava la nostra adolescenza e la nostra giovinezza, abbiamo imparato a dedicarci ad una cosa per volta, senza preoccuparci del tempo richiesto: ogni gesto un risultato, ogni movimento un effetto, con tanti passaggi uno dopo l’altro. Oggi è tutto più veloce, un link, una playlist, siti senza luogo nell’immensità dello spazio digitale, contatti con tanti sconosciuti attraverso un “mi piace”. Si può ascoltare la musica oggi senza attendere, eliminando ogni vuoto, cambiando brano senza soluzione di continuità, in un eterno presente che ha eliminato ogni differimento, ogni passaggio.
Ma noi abbiamo bisogno di tempo, vivere è anche elaborare, avere coscienza delle cose, imparare a stare magari un po’ in ritardo rispetto a ciò che avviene, ma in quel ritardo sorge la possibilità di recuperare la nostra vigilanza. E se è così per ogni essere umano che voglia restare presente a se stesso nella sua esistenza quotidiana, tanto più è necessario per recuperare il respiro nel nostro rapporto con Dio. Siamo sempre un po’ in ritardo rispetto a lui, ma è l’unico modo per seguirlo, arriviamo a scorgerne la presenza mentre vediamo volare via le note dal suo pentagramma. Quel volo ci serve per continuare a cercarlo, per alimentare il nostro desiderio di lui. Illuderci di essere a lui completamente contemporanei, in un presente del tutto risolto che ci metta sul suo stesso piano, al suo stesso ritmo, senza più ritardo, senza attesa che la sua Voce torni a farsi sentire, prima o poi ci spegnerebbe nel cuore la fede.
Vivere nella fede e prepararci alla Sua musica, camminare in prossimità dell’invisibile Voce, è sempre attendere, come l’avvento ogni anno ci aiuta a ricordare.
Don Gianni Caliandro, Rettore