La liturgia della Parola di questa IV domenica del Tempo Ordinario ci pone davanti ad una rivelazione sulla missione di Gesù: dopo le tre grandi manifestazioni del Signore, che ci hanno accompagnato dall’Epifania, attraverso il Battesimo del Signore, al brano giovanneo delle nozze di Cana nella II domenica del Tempo Ordinario, nel Vangelo odierno Luca ci presenta Gesù nella sinagoga di Nazaret, mentre proclama solennemente che “oggi” si sono compiute in lui le parole del profeta Isaia, che ha appena letto (cf. Lc 4,21). È proprio Gesù il liberatore, colui che lo Spirito del Signore ha consacrato con l’unzione ed ha inviato a portare il lieto annuncio ai poveri, è lui la realizzazione di tutte le attese di Israele.
Tale rivelazione non è priva di effetti: ciò che colpisce del racconto lucano è il mutamento di atteggiamento dei presenti, che dalla meraviglia per “le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (Lc 4,22) passano repentinamente all’ostilità verso Gesù e alla decisione di toglierlo di mezzo.
È il seme del pregiudizio a generare tale processo: “Non è costui il figlio di Giuseppe?” (Lc 4,22), si domandano. È un nazareno come loro, conoscono la sua parentela e credono di sapere tutto di lui: si aspettano che operi quei segni che ha già compiuto a Cafarnao, ma che egli nega loro perché “nessun profeta è bene accetto nella sua patria” (Lc 4,23). La tentazione dei concittadini di Gesù, che è quella di ogni uomo, è cercare di com-prendere Dio per piegarlo alle proprie esigenze: la pretesa di segni è espressione di una fede ridotta pericolosamente ad una relazione idolatrica con Dio, invocato magicamente quasi fosse la soluzione di tutti i problemi. E Gesù questo non può proprio assecondarlo, a costo di pronunciare parole sferzanti, come quelle dei profeti dell’Antico Testamento: nell’adempimento della propria missione di liberatore, infatti, egli affranca l’uomo anche da quei malintesi che impediscono un sano rapporto con Dio.
Messo di fronte a tali atteggiamenti, Gesù si vede quasi costretto a portare l’annuncio al di là degli angusti confini di Nazaret. Lo aveva già profetizzato Geremia: “Ti ho stabilito profeta delle nazioni … di’ loro tutto quello che ti ordinerò” (Ger 1,5.17). Elia ed Eliseo sono chiamati a testimonianza per indicare l’universalità dell’annuncio di salvezza: destinatari della grazia sono, infatti, una vedova di Sarepta di Sidone e Naaman, il siro. I presenti nella sinagoga restano imprigionati nella concezione giudaica di “separazione” dagli altri popoli, tanto da percepire le parole di Gesù come un vero e proprio affronto alla fierezza di un popolo che vanta un rapporto privilegiato con Dio: eppure è evidente che essi non sono in grado di intessere un’autentica relazione di amicizia con lui.
Il seme del pregiudizio porta con sé i frutti velenosi dell’ostilità e del rifiuto: come può uno del quale si sa tutto, essere un profeta, il Consacrato, l’Unto del Signore? L’aspettativa umana di un Dio operatore di grandi prodigi si unisce all’incapacità di accoglierlo nella sua umiltà e povertà, nella semplicità e nell’ordinarietà del quotidiano. Si coglie, nel breve spazio del brano, una sorta di anticipazione della Passione di Gesù, nella quale nuovamente si assisterà ad un capovolgimento di fronte nella reazione della folla, che passerà dall’“Osanna” al “Crocifiggilo”, dall’entusiasmo per il Re che viene ad una sentenza di morte.
Tutto questo ci interpella al livello della nostra esperienza di fede: se scegliamo di vivere la fede in modo adulto, affidandoci a Dio, pur con le nostre umane resistenze, per vivere con lui una relazione profonda e non idolatrica, saremo capaci di percorrere “la via più sublime” (1Cor 12,31), quella della carità, dell’accoglienza, della donazione gioiosa. Allora, nonostante le nostre inevitabili cadute, i nostri dubbi e le nostre paure, saremo capaci di fare spazio al Signore perché ancora una volta, passando in mezzo a noi, si metta in cammino (cf. Lc 4,30) per mostrarci la strada.
Mario Gargiulo
IV anno
La liturgia della Parola di questa IV domenica del Tempo Ordinario ci pone davanti ad una rivelazione sulla missione di Gesù: dopo le tre grandi manifestazioni del Signore, che ci hanno accompagnato dall’Epifania, attraverso il Battesimo del Signore, al brano giovanneo delle nozze di Cana nella II domenica del Tempo Ordinario, nel Vangelo odierno Luca ci presenta Gesù nella sinagoga di Nazaret, mentre proclama solennemente che “oggi” si sono compiute in lui le parole del profeta Isaia, che ha appena letto (cf. Lc 4,21). È proprio Gesù il liberatore, colui che lo Spirito del Signore ha consacrato con l’unzione ed ha inviato a portare il lieto annuncio ai poveri, è lui la realizzazione di tutte le attese di Israele.
Tale rivelazione non è priva di effetti: ciò che colpisce del racconto lucano è il mutamento di atteggiamento dei presenti, che dalla meraviglia per “le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (Lc 4,22) passano repentinamente all’ostilità verso Gesù e alla decisione di toglierlo di mezzo.
È il seme del pregiudizio a generare tale processo: “Non è costui il figlio di Giuseppe?” (Lc 4,22), si domandano. È un nazareno come loro, conoscono la sua parentela e credono di sapere tutto di lui: si aspettano che operi quei segni che ha già compiuto a Cafarnao, ma che egli nega loro perché “nessun profeta è bene accetto nella sua patria” (Lc 4,23). La tentazione dei concittadini di Gesù, che è quella di ogni uomo, è cercare di com-prendere Dio per piegarlo alle proprie esigenze: la pretesa di segni è espressione di una fede ridotta pericolosamente ad una relazione idolatrica con Dio, invocato magicamente quasi fosse la soluzione di tutti i problemi. E Gesù questo non può proprio assecondarlo, a costo di pronunciare parole sferzanti, come quelle dei profeti dell’Antico Testamento: nell’adempimento della propria missione di liberatore, infatti, egli affranca l’uomo anche da quei malintesi che impediscono un sano rapporto con Dio.
Messo di fronte a tali atteggiamenti, Gesù si vede quasi costretto a portare l’annuncio al di là degli angusti confini di Nazaret. Lo aveva già profetizzato Geremia: “Ti ho stabilito profeta delle nazioni … di’ loro tutto quello che ti ordinerò” (Ger 1,5.17). Elia ed Eliseo sono chiamati a testimonianza per indicare l’universalità dell’annuncio di salvezza: destinatari della grazia sono, infatti, una vedova di Sarepta di Sidone e Naaman, il siro. I presenti nella sinagoga restano imprigionati nella concezione giudaica di “separazione” dagli altri popoli, tanto da percepire le parole di Gesù come un vero e proprio affronto alla fierezza di un popolo che vanta un rapporto privilegiato con Dio: eppure è evidente che essi non sono in grado di intessere un’autentica relazione di amicizia con lui.
Il seme del pregiudizio porta con sé i frutti velenosi dell’ostilità e del rifiuto: come può uno del quale si sa tutto, essere un profeta, il Consacrato, l’Unto del Signore? L’aspettativa umana di un Dio operatore di grandi prodigi si unisce all’incapacità di accoglierlo nella sua umiltà e povertà, nella semplicità e nell’ordinarietà del quotidiano. Si coglie, nel breve spazio del brano, una sorta di anticipazione della Passione di Gesù, nella quale nuovamente si assisterà ad un capovolgimento di fronte nella reazione della folla, che passerà dall’“Osanna” al “Crocifiggilo”, dall’entusiasmo per il Re che viene ad una sentenza di morte.
Tutto questo ci interpella al livello della nostra esperienza di fede: se scegliamo di vivere la fede in modo adulto, affidandoci a Dio, pur con le nostre umane resistenze, per vivere con lui una relazione profonda e non idolatrica, saremo capaci di percorrere “la via più sublime” (1Cor 12,31), quella della carità, dell’accoglienza, della donazione gioiosa. Allora, nonostante le nostre inevitabili cadute, i nostri dubbi e le nostre paure, saremo capaci di fare spazio al Signore perché ancora una volta, passando in mezzo a noi, si metta in cammino (cf. Lc 4,30) per mostrarci la strada.
Mario Gargiulo
IV anno
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