Lo scenario che caratterizza l’ambientazione di questo momento singolare della vita di Gesù e dei suoi discepoli è, senza dubbio, quella dell’intimità, ma anche della profonda amarezza, perché si tratta dell’Ultima cena prima della morte del Maestro. In realtà, solo Gesù ha consapevolezza di questo. Non a caso, l’evangelista Giovanni, nell’apertura di questa pagina, esordisce con queste parole: “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, lì amò sino alla fine” (Gv 13,1). E quella parola “fine” non indica tanto il punto di arrivo temporale, ma il vertice del Suo amore nella donazione totale di Sé.
Con l’Ultima cena, quindi, arriva l’ora di Gesù. Giovanni delinea quest’ora come l’ora del passaggio, l’ora dell’amore sino alla fine. L’amore stesso di Gesù è il processo stesso del passaggio, della trasformazione, dell’uscire dai limiti della condizione umana per donarsi completamente con la sua morte.
E in quest’ora viene stabilito il patto della nuova ed eterna alleanza. Come la prima alleanza stipulata da Dio con Mosè si caratterizzava per il sacrificio degli agnelli e la consegna del comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”(Mt 22, 39), così, allo stesso modo, la nuova ed eterna alleanza è stipulata da Cristo con la sua morte e risurrezione, della quale noi partecipiamo, e in questa nuova alleanza viene donato il nuovo comandamento: “amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”(Gv 15, 12).
Nell’Ultima cena, che anticipa e diventa il memoriale perenne della Pasqua di Gesù, ci viene indicato in che modo Egli ci ha amati: abbassandosi, cioè, umiliandosi fino alla morte di croce, come direbbe San Paolo.
Questo rappresenta un’assurdità per i discepoli, una novità sconvolgente. Non a caso Simon Pietro, nella sua schietta sincerità, non accetta che Gesù gli lavi i piedi: è la resistenza di fronte alla novità assoluta del Maestro. Un’assurdità che sconvolge la vita dei discepoli anche dopo la risurrezione, perché essi faranno fatica ad accogliere la realtà della morte del Signore.
Del resto, molti gesti e parole nella vita di Gesù sono andati nella direzione opposta rispetto alle consuetudini e alla mentalità dei giudei, rivelando pian piano la sua identità di Figlio del Dio dell’amore. Un maestro, infatti, non avrebbe mai lavato i piedi ai suoi discepoli, come del resto un messia non sarebbe mai morto su una croce.
L’incomprensione di Pietro, il suo rifiuto di comprendere, è dunque comprensibile e non banale: è il rifiuto di una condizione che da Gesù passa ai discepoli: la condizione dello schiavo, dell’amore fino all’estremo. In effetti, i versetti finali del testo conoscono l’abbondare del “voi” dei discepoli: si assiste al passaggio da Gesù ai discepoli. Aver parte con Gesù significa essere là dove anche egli è stato. E queste parole sono consegna di un compito che è anche fondativo di una comunità. Andandosene, tornando al Padre, e lasciando alla libertà dei discepoli di vivere ciò che hanno visto in lui, egli fonda la sua comunità.
Gesù, lavando i piedi ai suoi discepoli, inaugura una sorta di nuova creazione. È un gesto sconvolgente quello di Gesù, un gesto che prepara gli apostoli alla sua Pasqua in obbedienza al Padre, ma Simon Pietro non è ancora pronto a seguire il Maestro sino in fondo.
Ma questo gesto non è fine a se stesso: esso, infatti, trova la sua piena concretizzazione nel dono di sé sulla croce. E allo stesso tempo diventa il comandamento nuovo per tutti coloro che aderiscono alla sua Parola, si mettono alla sua sequela e decidono di scommettere la propria vita su di Lui.
Il gesto della lavanda dei piedi ci ricorda che noi siamo creature non esenti dal peccato e, allo stesso tempo, costituisce un impegno per noi, perché anche noi possiamo perdonare agli altri le offese ricevute. Non a caso Gesù dice: “se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13, 14).
Sant’Agostino, commentando questo passaggio, si chiede: “dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede”.
Non è solo un comando da dover eseguire, ma una chiara indicazione a chi è realmente suo discepolo: non può esserci discepolato senza abbassamento, senza umiltà, senza servizio disinteressato e totale. Un amore che non viene contraccambiato, senza calcoli, senza misura.
“Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13, 15).
Stefano Antonaci
Arcidiocesi di Otranto
Lo scenario che caratterizza l’ambientazione di questo momento singolare della vita di Gesù e dei suoi discepoli è, senza dubbio, quella dell’intimità, ma anche della profonda amarezza, perché si tratta dell’Ultima cena prima della morte del Maestro. In realtà, solo Gesù ha consapevolezza di questo. Non a caso, l’evangelista Giovanni, nell’apertura di questa pagina, esordisce con queste parole: “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, lì amò sino alla fine” (Gv 13,1). E quella parola “fine” non indica tanto il punto di arrivo temporale, ma il vertice del Suo amore nella donazione totale di Sé.
Con l’Ultima cena, quindi, arriva l’ora di Gesù. Giovanni delinea quest’ora come l’ora del passaggio, l’ora dell’amore sino alla fine. L’amore stesso di Gesù è il processo stesso del passaggio, della trasformazione, dell’uscire dai limiti della condizione umana per donarsi completamente con la sua morte.
E in quest’ora viene stabilito il patto della nuova ed eterna alleanza. Come la prima alleanza stipulata da Dio con Mosè si caratterizzava per il sacrificio degli agnelli e la consegna del comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”(Mt 22, 39), così, allo stesso modo, la nuova ed eterna alleanza è stipulata da Cristo con la sua morte e risurrezione, della quale noi partecipiamo, e in questa nuova alleanza viene donato il nuovo comandamento: “amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”(Gv 15, 12).
Nell’Ultima cena, che anticipa e diventa il memoriale perenne della Pasqua di Gesù, ci viene indicato in che modo Egli ci ha amati: abbassandosi, cioè, umiliandosi fino alla morte di croce, come direbbe San Paolo.
Questo rappresenta un’assurdità per i discepoli, una novità sconvolgente. Non a caso Simon Pietro, nella sua schietta sincerità, non accetta che Gesù gli lavi i piedi: è la resistenza di fronte alla novità assoluta del Maestro. Un’assurdità che sconvolge la vita dei discepoli anche dopo la risurrezione, perché essi faranno fatica ad accogliere la realtà della morte del Signore.
Del resto, molti gesti e parole nella vita di Gesù sono andati nella direzione opposta rispetto alle consuetudini e alla mentalità dei giudei, rivelando pian piano la sua identità di Figlio del Dio dell’amore. Un maestro, infatti, non avrebbe mai lavato i piedi ai suoi discepoli, come del resto un messia non sarebbe mai morto su una croce.
L’incomprensione di Pietro, il suo rifiuto di comprendere, è dunque comprensibile e non banale: è il rifiuto di una condizione che da Gesù passa ai discepoli: la condizione dello schiavo, dell’amore fino all’estremo. In effetti, i versetti finali del testo conoscono l’abbondare del “voi” dei discepoli: si assiste al passaggio da Gesù ai discepoli. Aver parte con Gesù significa essere là dove anche egli è stato. E queste parole sono consegna di un compito che è anche fondativo di una comunità. Andandosene, tornando al Padre, e lasciando alla libertà dei discepoli di vivere ciò che hanno visto in lui, egli fonda la sua comunità.
Gesù, lavando i piedi ai suoi discepoli, inaugura una sorta di nuova creazione. È un gesto sconvolgente quello di Gesù, un gesto che prepara gli apostoli alla sua Pasqua in obbedienza al Padre, ma Simon Pietro non è ancora pronto a seguire il Maestro sino in fondo.
Ma questo gesto non è fine a se stesso: esso, infatti, trova la sua piena concretizzazione nel dono di sé sulla croce. E allo stesso tempo diventa il comandamento nuovo per tutti coloro che aderiscono alla sua Parola, si mettono alla sua sequela e decidono di scommettere la propria vita su di Lui.
Il gesto della lavanda dei piedi ci ricorda che noi siamo creature non esenti dal peccato e, allo stesso tempo, costituisce un impegno per noi, perché anche noi possiamo perdonare agli altri le offese ricevute. Non a caso Gesù dice: “se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13, 14).
Sant’Agostino, commentando questo passaggio, si chiede: “dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede”.
Non è solo un comando da dover eseguire, ma una chiara indicazione a chi è realmente suo discepolo: non può esserci discepolato senza abbassamento, senza umiltà, senza servizio disinteressato e totale. Un amore che non viene contraccambiato, senza calcoli, senza misura.
“Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13, 15).
Stefano Antonaci
Arcidiocesi di Otranto
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