Nel brano odierno, l’evangelista Marco ci fa notare un dettaglio che gli altri evangelisti tralasciano: «e subito gli parlarono di lei» (Mc 1,30). Ci è ben chiaro allora che i nostri problemi, il dolore che noi affrontiamo, la nostra sofferenza, non sono qualcosa da cui possiamo uscircene da soli! Non ne avremmo le forze necessarie, e rischieremmo solamente di peggiorare la situazione. Abbiamo, invece, bisogno di qualcuno, di una persona che ci ascolti che condivida con noi la nostra sofferenza: nessuno si salva da solo!
È curioso che questo elemento viene riportato moltissime volte nei vangeli, come in seguito: «gli portavano tutti i malati e gli indemoniati» (Mc 1, 32). Comprendiamo che il modo con cui iniziare a guarire da un dolore interiore non è soffocarlo, far finta che non ci sia, o pensare che sia una questione privata, ma è lasciare che qualcun altro possa prendersi cura di noi, possa accompagnarci da Gesù. Da soli non possiamo farcela, ma abbiamo bisogno degli altri, di qualcuno che conosca la mia situazione, e che mi presenti a Gesù. Il mio dolore forse mi salva proprio dal pensare che io basti a me stesso, che da solo posso affrontare qualunque cosa nella vita. Ma perché affidare a qualcuno il mio dolore? Perché il dolore è ciò che accomuna ogni essere umano, e nello stesso tempo ci rivela perfettamente che non bastiamo a noi stessi, abbiamo costitutivamente bisogno di un’altra persona che ci accompagni nel nostro cammino. Soprattutto nel dolore. Ad una condizione: dobbiamo avere il coraggio di esprimere tale dolore, di non tenerlo nascosto, di non fare finta di niente, ma soprattutto non dobbiamo vergognarci del nostro dolore! Fa parte della nostra umanità, della nostra fragilità: condividere con qualcun altro questo dolore può diventare la via per la guarigione.
Ma proseguiamo con il nostro brano: «Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano» (Mc 1,31). Gesù è entrato in casa, si è messo in ascolto del dolore della donna e la prima cosa che fa, avvicinandosi, è prenderla per mano. È il contatto che salva: il Signore tocca la sua carne debole, il suo corpo febbricitante e sofferente, e prendendola per mano, le ridona una vita nuova. Un processo di guarigione spirituale non può completarsi se non grazie a un contatto: abbiamo bisogno di fare esperienza viva di Gesù, esperienza «fisica», abbiamo bisogno che la sua mano tocchi davvero la nostra carne. E tale esperienza può essere fatta solo nella relazione. Ci sono diversi modi con cui il Signore può toccarci: una parola, un gesto, una persona, nella preghiera, nella Parola di Dio, nei Sacramenti. Egli utilizza ogni via possibile per raggiungerci, per toccare «fisicamente» la nostra carne, la nostra sofferenza, il nostro cuore.
E ci dona una vita nuova. Ciò che fa con la suocera di Pietro lo fa anche con noi oggi. In realtà, Gesù, non puntava tanto a guarirla dalla febbre, dal suo male interiore, dalla sua sofferenza, ma coglie questa occasione perché accada qualcosa di più grande: il testo dice «la fece alzare» (Mc 1,31).
Sembra una cosa da niente, ma in realtà era proprio ciò per cui sin dall’inizio Gesù entra in quella casa: rialzarla dalla situazione. Il verbo che l’evangelista Marco utilizza per indicare l’azione di Gesù è lo stesso verbo che indica la Resurrezione (ēgheìrō), la Vita nuova, la Vita piena.
Proviamo a rileggere il testo in questo modo: «Egli si avvicinò e prendendola per mano “le donò la vita nuova”; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (cfr. Mc 1,31). Anche oggi il Signore, di fronte alle nostre sofferenze, al nostro dolore, ai nostri tormenti interiori, ci fa dono più grande, quello di una Vita Nuova! E se il mistero del male, del dolore, della sofferenza, della nostra pochezza, è un mistero inspiegabile, Gesù ci dona la vita nuova dei Figli di Dio, ci permette di vivere da Risorti, di sperimentare la sua Salvezza e la sua Grazia. E anche se apparentemente Gesù non agisce direttamente sul dolore di quella donna, le dona una Vita nuova, le fa fare esperienza di Resurrezione! E solo di fronte all’azione di Gesù, di fronte alla vita nuova di Figlia di Dio, «la febbre la lasciò»; il dolore si sbiadisce, e la sofferenza non è più l’elemento costante che ci priva di vivere pienamente.
Ma il v. 31 non finisce qui: «ed ella li serviva». La Vita Nuova trova la sua più grande espressione nel Servizio, nella dedizione, nella donazione di sé agli altri. Non possiamo pensare di servire, di donarci agli altri, di fare qualcosa per gli altri, se prima non facciamo esperienza di Resurrezione, se prima non facciamo esperienza di quel contatto salvifico con il Signore Gesù. È la Vita Nuova donataci dall’esperienza con Cristo, che si esprime pienamente e liberamente nel servizio, nella donazione libera e totale di sé. E tale donazione libera e totale di sé è la testimonianza dell’incontro con Cristo, che ama, perdona, guarisce e dona Vita Nuova!
Valerio Gioia, IV anno
Diocesi di Oria
valeriogioi@hotmail.it
Gb 7,1-4.6-7
Sal 146
1Cor 9,16-19.22-23
Mc 1,29-39
La liturgia della V domenica del Tempo Ordinario fa proseguire il nostro cammino accompagnati dall’evangelista Marco. Siamo ancora nel giorno di sabato, e Gesù, che prima era nella sinagoga, ora si sposta nella casa di Simone ed Andrea. Ma la cosa che salta subito all’occhio è quel «subito» (Mc 1,29) tipico di Marco, che ci fa assaporare l’urgenza e l’imminenza del Regno di Dio. Sembra quasi che Gesù non veda l’ora di andare in quella casa, di continuare la sua missione. Non basta insegnare nel tempio, non basta esorcizzare un indemoniato. Gesù sa che la sua missione deve raggiungere tutti, allora «subito» si muove, non perde tempo.
Ed entra in casa: nel luogo dell’intimità, della nostra profondità, della nostra «segretezza». Ma in questa casa c’è una situazione particolare: «La suocera di Simone era a letto con la febbre» (Mc 1,30). In questa casa c’è una donna sta facendo i conti con il mistero della malattia, del dolore e della sofferenza. Un mistero spesso incomprensibile, poiché ci pone davanti la nostra miseria, la nostra povertà, tutta la nostra limitatezza. Tale mistero è al centro dell’esperienza di Giobbe, un uomo giusto, che ha sempre cercato di vivere onestamente la sua vita, tanto da essere stimato da tutti, anche da Dio. Eppure la vita non gli risparmia la sofferenza, fino a dire, nella sofferenza e nella disillusione: «Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene» (Gb 7,7).
Comprendiamo allora che la febbre di cui si parla nel vangelo non è una semplice situazione fisica, ma è molto di più: è l’inspiegabile mistero del dolore che tocca ogni essere umano. E quante volte facciamo i conti con tale mistero! Una prova improvvisa, un lutto, un problema che sembra essere più grande di noi, un fallimento, una ingiustizia, una forte delusione, un tradimento… tutte le situazioni che non ci permettono di assaporare la bellezza della vita, situazioni che ci offuscano la vista, ci offuscano il cuore, e magari proprio quando siamo convinti di aver sempre vissuto, come Giobbe, da uomini e donne giusti! Di fronte al dolore, ne va di mezzo il senso della vita! Perché magari ci scontriamo con qualcosa di gran lunga superiore alle nostre forze, e pensavamo di poter costruire i nostri progetti senza disturbo, di vivere una vita senza problemi, senza scontrarci con il mistero del male. Ma inspiegabilmente questo mistero esiste, e ci tocca in prima persona: non sappiamo come affrontarlo, non sappiamo come andare avanti, come riprendere il cammino, perché quello che è successo ha lasciato un segno molto forte, ci ha procurato una ferita incredibile, e noi stiamo a letto, del tutto inermi, passivi, non abbiamo più le forze, le motivazioni per andare avanti, non troviamo più la gioia di vivere!
Nel brano odierno, l’evangelista Marco ci fa notare un dettaglio che gli altri evangelisti tralasciano: «e subito gli parlarono di lei» (Mc 1,30). Ci è ben chiaro allora che i nostri problemi, il dolore che noi affrontiamo, la nostra sofferenza, non sono qualcosa da cui possiamo uscircene da soli! Non ne avremmo le forze necessarie, e rischieremmo solamente di peggiorare la situazione. Abbiamo, invece, bisogno di qualcuno, di una persona che ci ascolti che condivida con noi la nostra sofferenza: nessuno si salva da solo!
È curioso che questo elemento viene riportato moltissime volte nei vangeli, come in seguito: «gli portavano tutti i malati e gli indemoniati» (Mc 1, 32). Comprendiamo che il modo con cui iniziare a guarire da un dolore interiore non è soffocarlo, far finta che non ci sia, o pensare che sia una questione privata, ma è lasciare che qualcun altro possa prendersi cura di noi, possa accompagnarci da Gesù. Da soli non possiamo farcela, ma abbiamo bisogno degli altri, di qualcuno che conosca la mia situazione, e che mi presenti a Gesù. Il mio dolore forse mi salva proprio dal pensare che io basti a me stesso, che da solo posso affrontare qualunque cosa nella vita. Ma perché affidare a qualcuno il mio dolore? Perché il dolore è ciò che accomuna ogni essere umano, e nello stesso tempo ci rivela perfettamente che non bastiamo a noi stessi, abbiamo costitutivamente bisogno di un’altra persona che ci accompagni nel nostro cammino. Soprattutto nel dolore. Ad una condizione: dobbiamo avere il coraggio di esprimere tale dolore, di non tenerlo nascosto, di non fare finta di niente, ma soprattutto non dobbiamo vergognarci del nostro dolore! Fa parte della nostra umanità, della nostra fragilità: condividere con qualcun altro questo dolore può diventare la via per la guarigione.
Ma proseguiamo con il nostro brano: «Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano» (Mc 1,31). Gesù è entrato in casa, si è messo in ascolto del dolore della donna e la prima cosa che fa, avvicinandosi, è prenderla per mano. È il contatto che salva: il Signore tocca la sua carne debole, il suo corpo febbricitante e sofferente, e prendendola per mano, le ridona una vita nuova. Un processo di guarigione spirituale non può completarsi se non grazie a un contatto: abbiamo bisogno di fare esperienza viva di Gesù, esperienza «fisica», abbiamo bisogno che la sua mano tocchi davvero la nostra carne. E tale esperienza può essere fatta solo nella relazione. Ci sono diversi modi con cui il Signore può toccarci: una parola, un gesto, una persona, nella preghiera, nella Parola di Dio, nei Sacramenti. Egli utilizza ogni via possibile per raggiungerci, per toccare «fisicamente» la nostra carne, la nostra sofferenza, il nostro cuore.
E ci dona una vita nuova. Ciò che fa con la suocera di Pietro lo fa anche con noi oggi. In realtà, Gesù, non puntava tanto a guarirla dalla febbre, dal suo male interiore, dalla sua sofferenza, ma coglie questa occasione perché accada qualcosa di più grande: il testo dice «la fece alzare» (Mc 1,31).
Sembra una cosa da niente, ma in realtà era proprio ciò per cui sin dall’inizio Gesù entra in quella casa: rialzarla dalla situazione. Il verbo che l’evangelista Marco utilizza per indicare l’azione di Gesù è lo stesso verbo che indica la Resurrezione (ēgheìrō), la Vita nuova, la Vita piena.
Proviamo a rileggere il testo in questo modo: «Egli si avvicinò e prendendola per mano “le donò la vita nuova”; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (cfr. Mc 1,31). Anche oggi il Signore, di fronte alle nostre sofferenze, al nostro dolore, ai nostri tormenti interiori, ci fa dono più grande, quello di una Vita Nuova! E se il mistero del male, del dolore, della sofferenza, della nostra pochezza, è un mistero inspiegabile, Gesù ci dona la vita nuova dei Figli di Dio, ci permette di vivere da Risorti, di sperimentare la sua Salvezza e la sua Grazia. E anche se apparentemente Gesù non agisce direttamente sul dolore di quella donna, le dona una Vita nuova, le fa fare esperienza di Resurrezione! E solo di fronte all’azione di Gesù, di fronte alla vita nuova di Figlia di Dio, «la febbre la lasciò»; il dolore si sbiadisce, e la sofferenza non è più l’elemento costante che ci priva di vivere pienamente.
Ma il v. 31 non finisce qui: «ed ella li serviva». La Vita Nuova trova la sua più grande espressione nel Servizio, nella dedizione, nella donazione di sé agli altri. Non possiamo pensare di servire, di donarci agli altri, di fare qualcosa per gli altri, se prima non facciamo esperienza di Resurrezione, se prima non facciamo esperienza di quel contatto salvifico con il Signore Gesù. È la Vita Nuova donataci dall’esperienza con Cristo, che si esprime pienamente e liberamente nel servizio, nella donazione libera e totale di sé. E tale donazione libera e totale di sé è la testimonianza dell’incontro con Cristo, che ama, perdona, guarisce e dona Vita Nuova!
Valerio Gioia, IV anno
Diocesi di Oria
valeriogioi@hotmail.it
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