La liturgia del Venerdì Santo è l’immagine stessa del paradosso cristiano: il popolo di Dio si riunisce per adorare il Signore Gesù al culmine della sua debolezza, del suo essere meno Dio e più uomo; eppure proprio in questo momento lo si acclama come re, e ci si dispone a rendergli omaggio nella maniera più evidente possibile con l’adorazione della Croce.
La regalità, la signoria di Cristo, traspare in modo vivace dalla Passione secondo Giovanni, che la Chiesa propone per l’azione liturgica (Gv 18,1-19.42): l’evangelista mostra Gesù che si offre liberamente alla passione, e descrive la stessa passione come vera e propria epifania della sua Divina Umanità. Il racconto comincia con un grande dispiegamento di forze da parte delle autorità del Tempio di Gerusalemme per catturare Gesù, guidate da Giuda. Giuda, tra gli apostoli, è forse colui che ha equivocato maggiormente l’essenza della regalità di Gesù, e proprio per questo, probabilmente deluso, lo tradisce. Giovanni presenta anche il momento della cattura del Signore come un momento di rivelazione, incentrata sul nome con cui Dio stesso si è rivelato a Mosè nel roveto ardente: “Io Sono”. Gesù così risponde ai soldati che cercano “Gesù il Nazareno”, utilizzando la provenienza del Signore quasi per scherno, per demolire la sua pretesa messianica: a ciò Gesù risponde affermando non solo la sua messianicità, ma la sua unione con il Padre, la sua Divinità: “Io sono”.
Il tema della regalità di Cristo torna poi dopo il processo giudaico, quando egli è portato dinanzi a Pilato: il capo d’accusa con cui i capi giudei lo portano dinanzi al procuratore è proprio quello di essersi proclamato “Re dei Giudei”. E’ questo lo scandalo per i Giudei, in quanto per loro un re come Gesù, senza potere terreno e senza gloria umana non poteva liberarli dall’oppressore ed essere il loro Messia, non poteva essere il Figlio di Dio, poiché non soddisfaceva le loro attese e ciò che loro immaginavano dovesse essere il figlio di Davide.
Pilato esaminando il caso di Gesù percepisce qualcosa, ma non riesce ad andare in fondo: dinanzi al tipo di regalità mostratagli da Cristo, non trova in essa una colpevolezza, ma al massimo stoltezza, straniamento. La Regalità che Cristo esprime a Pilato è la testimonianza alla Verità, una verità che Pilato non conosce, che non riesce a vedere. Questa Regalità di Cristo viene umiliata con un mantello purpureo e con una corona di spine: invece di omaggi e di inchini vengono tributati al Signore dei secoli sputi e schiaffi. Anche dinanzi a questo spettacolo, dinanzi ad un uomo umiliato e fustigato, i capi degli scribi e dei farisei non si fermano; chiedono che sia crocifisso, e sono pronti a preferire la regalità del potere romano, sempre odiato, a quella di Cristo: “Non abbiamo altro re che Cesare” (Gv 19,15).
Gesù è però fermo nella sua obbedienza al Padre: anche davanti allo stupore di Pilato circa il suo silenzio, della sua volontà di non rispondere alle accuse che gli venivano poste, riconosce che tutto ciò che sta vivendo è parte di ciò per cui è venuto: portare a compimento la volontà del Padre, e incontrare gli uomini nel punto più lontano da Dio, la morte.
La Crocifissione in Giovanni è quasi un’intronizzazione: sopra il capo del Cristo viene posta, come motivo della sua condanna “Il Re dei Giudei”, che rimane tale nonostante le proteste dei capi dei sacerdoti. Tale scritta è in Latino, Greco ed Ebraico, quasi un omaggio all’universalità della Signoria del Cristo Crocifisso che si estende sul popolo eletto, sugli oppressori e su tutto l’ecumene allora conosciuto. Lo stesso atto puntuale della morte di Gesù viene presentato dal quarto evangelista come un atto di compimento: le ultime parole del Cristo sono appunto “tetèlestai”, “è compiuto” (Gv 19,30).
Tutta la missione del Signore si compie così, con la sua morte, che come preannuncia la liturgia del Venerdì Santo, è già gravida dei germogli della risurrezione. Davanti ad un uomo morto in croce, sfinito ed apparentemente sconfitto, la liturgia fa cantare, durante l’atto dell’adorazione della Croce: Aghios o Theos, Santo Dio, Aghios Ischiros, Santo Forte, Aghios Athanatos eleison imas, Santo Immortale, abbi pietà di noi. Colui che ha a malapena apparenza di uomo, prostrato dei dolori, disprezzato e umiliato, richiamando la prima lettura tratta dal profeta Isaia (Is 52,13-53,12), è chiamato “Dio Santo”; colui che è piagato, sofferente, sfinito, mite come agnello condotto al macello, è chiamato “Forte”; colui che è morto di una morte infame e sepolto con gli empi è chiamato “Immortale”. Anche nel cuore del buio, del turbamento del venerdì Santo, anche là dove l’uomo pensa di trovare il limite del non senso, della morte, dell’abbandono, splende già agli occhi della fede, la luce del mattino di Pasqua. La croce, strumento di morte, diviene la nostra unica speranza; la croce, simbolo d’infamia, diviene il vessillo svettante del Re; il Crocifisso, morto e sconfitto, diviene colui che, fattosi “obbediente fino alla morte e a una morte di croce” ha meritato da Dio “il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (cf. Fil 2,8-9).
La liturgia del Venerdì Santo è l’immagine stessa del paradosso cristiano: il popolo di Dio si riunisce per adorare il Signore Gesù al culmine della sua debolezza, del suo essere meno Dio e più uomo; eppure proprio in questo momento lo si acclama come re, e ci si dispone a rendergli omaggio nella maniera più evidente possibile con l’adorazione della Croce.
La regalità, la signoria di Cristo, traspare in modo vivace dalla Passione secondo Giovanni, che la Chiesa propone per l’azione liturgica (Gv 18,1-19.42): l’evangelista mostra Gesù che si offre liberamente alla passione, e descrive la stessa passione come vera e propria epifania della sua Divina Umanità. Il racconto comincia con un grande dispiegamento di forze da parte delle autorità del Tempio di Gerusalemme per catturare Gesù, guidate da Giuda. Giuda, tra gli apostoli, è forse colui che ha equivocato maggiormente l’essenza della regalità di Gesù, e proprio per questo, probabilmente deluso, lo tradisce. Giovanni presenta anche il momento della cattura del Signore come un momento di rivelazione, incentrata sul nome con cui Dio stesso si è rivelato a Mosè nel roveto ardente: “Io Sono”. Gesù così risponde ai soldati che cercano “Gesù il Nazareno”, utilizzando la provenienza del Signore quasi per scherno, per demolire la sua pretesa messianica: a ciò Gesù risponde affermando non solo la sua messianicità, ma la sua unione con il Padre, la sua Divinità: “Io sono”.
Il tema della regalità di Cristo torna poi dopo il processo giudaico, quando egli è portato dinanzi a Pilato: il capo d’accusa con cui i capi giudei lo portano dinanzi al procuratore è proprio quello di essersi proclamato “Re dei Giudei”. E’ questo lo scandalo per i Giudei, in quanto per loro un re come Gesù, senza potere terreno e senza gloria umana non poteva liberarli dall’oppressore ed essere il loro Messia, non poteva essere il Figlio di Dio, poiché non soddisfaceva le loro attese e ciò che loro immaginavano dovesse essere il figlio di Davide.
Pilato esaminando il caso di Gesù percepisce qualcosa, ma non riesce ad andare in fondo: dinanzi al tipo di regalità mostratagli da Cristo, non trova in essa una colpevolezza, ma al massimo stoltezza, straniamento. La Regalità che Cristo esprime a Pilato è la testimonianza alla Verità, una verità che Pilato non conosce, che non riesce a vedere. Questa Regalità di Cristo viene umiliata con un mantello purpureo e con una corona di spine: invece di omaggi e di inchini vengono tributati al Signore dei secoli sputi e schiaffi. Anche dinanzi a questo spettacolo, dinanzi ad un uomo umiliato e fustigato, i capi degli scribi e dei farisei non si fermano; chiedono che sia crocifisso, e sono pronti a preferire la regalità del potere romano, sempre odiato, a quella di Cristo: “Non abbiamo altro re che Cesare” (Gv 19,15).
Gesù è però fermo nella sua obbedienza al Padre: anche davanti allo stupore di Pilato circa il suo silenzio, della sua volontà di non rispondere alle accuse che gli venivano poste, riconosce che tutto ciò che sta vivendo è parte di ciò per cui è venuto: portare a compimento la volontà del Padre, e incontrare gli uomini nel punto più lontano da Dio, la morte.
La Crocifissione in Giovanni è quasi un’intronizzazione: sopra il capo del Cristo viene posta, come motivo della sua condanna “Il Re dei Giudei”, che rimane tale nonostante le proteste dei capi dei sacerdoti. Tale scritta è in Latino, Greco ed Ebraico, quasi un omaggio all’universalità della Signoria del Cristo Crocifisso che si estende sul popolo eletto, sugli oppressori e su tutto l’ecumene allora conosciuto. Lo stesso atto puntuale della morte di Gesù viene presentato dal quarto evangelista come un atto di compimento: le ultime parole del Cristo sono appunto “tetèlestai”, “è compiuto” (Gv 19,30).
Tutta la missione del Signore si compie così, con la sua morte, che come preannuncia la liturgia del Venerdì Santo, è già gravida dei germogli della risurrezione. Davanti ad un uomo morto in croce, sfinito ed apparentemente sconfitto, la liturgia fa cantare, durante l’atto dell’adorazione della Croce: Aghios o Theos, Santo Dio, Aghios Ischiros, Santo Forte, Aghios Athanatos eleison imas, Santo Immortale, abbi pietà di noi. Colui che ha a malapena apparenza di uomo, prostrato dei dolori, disprezzato e umiliato, richiamando la prima lettura tratta dal profeta Isaia (Is 52,13-53,12), è chiamato “Dio Santo”; colui che è piagato, sofferente, sfinito, mite come agnello condotto al macello, è chiamato “Forte”; colui che è morto di una morte infame e sepolto con gli empi è chiamato “Immortale”. Anche nel cuore del buio, del turbamento del venerdì Santo, anche là dove l’uomo pensa di trovare il limite del non senso, della morte, dell’abbandono, splende già agli occhi della fede, la luce del mattino di Pasqua. La croce, strumento di morte, diviene la nostra unica speranza; la croce, simbolo d’infamia, diviene il vessillo svettante del Re; il Crocifisso, morto e sconfitto, diviene colui che, fattosi “obbediente fino alla morte e a una morte di croce” ha meritato da Dio “il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (cf. Fil 2,8-9).
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