Al cuore di questo brano evangelico, che la Chiesa ci offre di ascoltare – in continuità con quello della scorsa domenica, della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci – si potrebbe scorgere una prospettiva da cui rileggere l’intero testo: quella del riconoscimento. Il mare in burrasca si fa palcoscenico di sguardi che si incrociano: alcuni offuscati, altri che fraintendono, e ancora altri, stupiti, poi coscienti. Ma, in fin dei conti, tutti, tremendamente autentici.
Nell’ora nera della notte, con la barca in balìa della tempesta, la visione dei discepoli è quella di una rovina inevitabile: l’allarme, il terrore condizionano la percezione dello sguardo, generando smarrimento. L’intimo dei cuori rispecchia il contesto esterno. Il mare, simbolo dell’imprevedibile, in questo momento, si palesa in tutta la sua prepotenza.
Tuttavia, fra i cavalloni, s’intravede una figura confusa, indistinta. Un fantasma, che, nel fragore roboante delle onde, nel chiasso delle grida dei discepoli, chiede di essere riconosciuto: “Sono io, non abbiate paura!”. È il Signore, che abita le nostre tempeste, nelle ore più tristi si fa prossimo. Colui che sembrava lontano, eccolo, più vicino che mai. Non lascia soli i suoi discepoli ma, a partire da quell’intimità vissuta nel dialogo orante con il Padre, si coinvolge nella sorte in cui incombono i suoi. È presente e già vittorioso, anche se tutto, attorno, sembra negarlo.
Nello sgomento generale, Pietro, il paradigma della vita cristiana, si lascia muovere da uno slancio di fede per raggiungere il Maestro. Penetrare il mistero di Cristo che si spalanca dinnanzi è tremendamente urgente, più di quanto sia pietrificante la paura. Chiede, per compiere ciò che non è nelle sue possibilità, che il Signore glielo permetta. È cosciente che da solo, per sua intraprendenza, fallirebbe. Vuole comprendere, toccare.
Il Signore chiede solo di fidarsi, di credere che con lui accanto, nulla di male può accadere. In questa circostanza egli non domina, come in un altro episodio evangelico, il mare (Mt 8, 27-35). Ma è stabile nel caos, è forte e sicuro. Chiede ai suoi, senza risparmiare loro l’esperienza drammatica della tempesta, di attraversarla, di viverla coraggiosamente, stretti a lui.
Ma appena Pietro, l’uomo esperto del mare, si scontra con la violenza del vento, con la concretezza delle umane paure, eccolo cedere, annegare. Tuttavia, mentre i suoi slanci sprofondano, la fede povera riemerge dalle acque: “Signore, salvami!”. Il grido disperato di uomo coraggioso e dubbioso, che arriva a comprendere di non aver bisogno di nient’altro che la mano prontamente tesa del Salvatore. Mi piace immaginare che quelle parole finali di Cristo, più che una severa accusa alla fragilità della fede di Pietro, siano quelle di un uomo stupito per la piccola conquista di un suo amico e che vuole spronarlo ad una fiducia sempre maggiore. Riconoscere la piccolezza della propria fede è sempre un’occasione per ricominciare, per andare oltre.
Ora i discepoli lo vedono: è lui, il Maestro. Solo quando lo riconoscono tutto attorno sembra placarsi. È lo sguardo commosso, sono le parole tremanti di chi ha fatto esperienza di salvezza: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”.
Al cuore di questo brano evangelico, che la Chiesa ci offre di ascoltare – in continuità con quello della scorsa domenica, della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci – si potrebbe scorgere una prospettiva da cui rileggere l’intero testo: quella del riconoscimento. Il mare in burrasca si fa palcoscenico di sguardi che si incrociano: alcuni offuscati, altri che fraintendono, e ancora altri, stupiti, poi coscienti. Ma, in fin dei conti, tutti, tremendamente autentici.
Nell’ora nera della notte, con la barca in balìa della tempesta, la visione dei discepoli è quella di una rovina inevitabile: l’allarme, il terrore condizionano la percezione dello sguardo, generando smarrimento. L’intimo dei cuori rispecchia il contesto esterno. Il mare, simbolo dell’imprevedibile, in questo momento, si palesa in tutta la sua prepotenza.
Tuttavia, fra i cavalloni, s’intravede una figura confusa, indistinta. Un fantasma, che, nel fragore roboante delle onde, nel chiasso delle grida dei discepoli, chiede di essere riconosciuto: “Sono io, non abbiate paura!”. È il Signore, che abita le nostre tempeste, nelle ore più tristi si fa prossimo. Colui che sembrava lontano, eccolo, più vicino che mai. Non lascia soli i suoi discepoli ma, a partire da quell’intimità vissuta nel dialogo orante con il Padre, si coinvolge nella sorte in cui incombono i suoi. È presente e già vittorioso, anche se tutto, attorno, sembra negarlo.
Nello sgomento generale, Pietro, il paradigma della vita cristiana, si lascia muovere da uno slancio di fede per raggiungere il Maestro. Penetrare il mistero di Cristo che si spalanca dinnanzi è tremendamente urgente, più di quanto sia pietrificante la paura. Chiede, per compiere ciò che non è nelle sue possibilità, che il Signore glielo permetta. È cosciente che da solo, per sua intraprendenza, fallirebbe. Vuole comprendere, toccare.
Il Signore chiede solo di fidarsi, di credere che con lui accanto, nulla di male può accadere. In questa circostanza egli non domina, come in un altro episodio evangelico, il mare (Mt 8, 27-35). Ma è stabile nel caos, è forte e sicuro. Chiede ai suoi, senza risparmiare loro l’esperienza drammatica della tempesta, di attraversarla, di viverla coraggiosamente, stretti a lui.
Ma appena Pietro, l’uomo esperto del mare, si scontra con la violenza del vento, con la concretezza delle umane paure, eccolo cedere, annegare. Tuttavia, mentre i suoi slanci sprofondano, la fede povera riemerge dalle acque: “Signore, salvami!”. Il grido disperato di uomo coraggioso e dubbioso, che arriva a comprendere di non aver bisogno di nient’altro che la mano prontamente tesa del Salvatore. Mi piace immaginare che quelle parole finali di Cristo, più che una severa accusa alla fragilità della fede di Pietro, siano quelle di un uomo stupito per la piccola conquista di un suo amico e che vuole spronarlo ad una fiducia sempre maggiore. Riconoscere la piccolezza della propria fede è sempre un’occasione per ricominciare, per andare oltre.
Ora i discepoli lo vedono: è lui, il Maestro. Solo quando lo riconoscono tutto attorno sembra placarsi. È lo sguardo commosso, sono le parole tremanti di chi ha fatto esperienza di salvezza: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”.
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