Testi della Liturgia della Parola
Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23
La pericope evangelica odierna è situata all’inizio del capitolo 13 di Mt, meglio conosciuto come il capitolo dei discorsi in parabole di Gesù. Possiamo subito individuare tre scene in questo Vangelo: un incipit con la narrazione della parabola del seminatore; la domanda dei discepoli, circa la necessità di parlare in parabole e infine la spiegazione della parabola da parte di Gesù.
Si può intuire un parallelismo tra il v. 1 e il v. 3, dove viene narrata una stessa azione: Gesù e il seminatore, entrambi escono per poter seminare; il primo la Parola del Regno, il secondo la semente da gettare.
Nei capitoli precedenti, del Vangelo di Mt, è esplicita l’opposizione al ministero del Cristo, per cui nel contesto storico, la parabola si riferiva a tali ostacoli. Seppur le prospettive della resa della semina, cioè l’attività missionaria di Gesù, non erano tra le più incoraggianti, il Maestro di Nazareth ci invita ad avere fiducia nell’efficacia della Parola che lui è venuto a comunicare, la Parola di Dio.
Traiamo tale fiducia proprio guardando il comportamento del seminatore, egli è ben consapevole che non tutta la semente riuscirà a portare frutto, ma largamente getta i semi, fiducioso che la messe sarà altrettanto abbondante. È naturale che ci sorga una domanda: è possibile una resa del cento, sessanta e trenta per uno? Stando ad una oggettività dei fatti, sarebbe impossibile, anche oggi con le tecniche moderne si raggiunge al massimo il trenta. Allora perché la necessità di tale esagerazione? Tutto questo è tipico dello stile parabolico e Gesù se ne avvale per sottolineare la potenza della sua Parola per questo al v. 9 abbiamo l’invito all’ascolto. La Parola di Dio, viva ed eterna, è seme immortale; questo seme, ora sacrificato garantisce la vita per il futuro.
Mt sembra mettere l’accento sui singoli semi, piuttosto che sulla “parte”, come Mc e Lc, per invitare i lettori del suo vangelo a impegnarsi a portare frutti abbondanti, sostenuti dalla stessa Parola che come la pioggia idrata la terra e permette il germogliare del seme.
Attorno a Gesù, nei pressi del lago, non c’erano solo i discepoli, ma anche le folle. Ora una domanda lecita invade la mente e i cuori dei discepoli: perché parlare in parabole? La loro preoccupazione è quella che il messaggio non arrivi ai destinatari, o forse che esso sia travisato. La risposta di Gesù, differente nei sinottici, non lascia dubbio alcuno “poiché a voi è stato dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a quelli non è stato dato”, a causa dell’incredulità del popolo; frutto dell’indisponibilità ad aprirsi all’annuncio fatto da Gesù. Essi, i discepoli, sono dichiarati beati perché hanno sì accolto la sua Parola, ma anche condividono una comunione di vita che rendeva possibile un entrare a contatto con il disegno divino della salvezza attraverso la sua parola e le sue gesta. Molti profeti e giusti avrebbero voluto vivere tutto ciò che i discepoli avevano “a portata di mano”.
La spiegazione della parabola è una vera e propria parenesi; non si tratta quindi solo di ascoltare ma di comprendere, di assimilare questo annuncio del Regno, affinché diventi vita concreta di ogni giorno e la Parola non sia resa sterile. Dobbiamo però ricordarci che anche la comprensione della Parola è dono di Dio, non il frutto di uno sforzo mentale, poiché si comprende la Parola non solo con la mente, ma anche con il cuore. A tal proposito il v. 18 riecheggia lo Shemà, la preghiera del pio israelita, recitata due volte al giorno; anche il cristiano è invitato ad ascoltare la parola di Gesù, aprendosi con docilità e disponibilità.
I differenti tipi di terreno corrispondono alle diverse risposte date alla Parola; il terreno buono non lo è da sé stesso, ma il risultato delle cure del seminatore che ne prepara la terra. Solo la vera disponibilità ad accogliere la Parola, a farla giacere nei solchi, a darle spazio affinché germogli, fa sì che il frutto sia abbondante, subordinando ogni altro interesse alla fedeltà del vangelo.
Per essere terreno buono, facciamo nostre le parole della colletta:
“Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che continui a seminare miei solchi dell’umanità, perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno”
Testi della Liturgia della Parola
Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23
La pericope evangelica odierna è situata all’inizio del capitolo 13 di Mt, meglio conosciuto come il capitolo dei discorsi in parabole di Gesù. Possiamo subito individuare tre scene in questo Vangelo: un incipit con la narrazione della parabola del seminatore; la domanda dei discepoli, circa la necessità di parlare in parabole e infine la spiegazione della parabola da parte di Gesù.
Si può intuire un parallelismo tra il v. 1 e il v. 3, dove viene narrata una stessa azione: Gesù e il seminatore, entrambi escono per poter seminare; il primo la Parola del Regno, il secondo la semente da gettare.
Nei capitoli precedenti, del Vangelo di Mt, è esplicita l’opposizione al ministero del Cristo, per cui nel contesto storico, la parabola si riferiva a tali ostacoli. Seppur le prospettive della resa della semina, cioè l’attività missionaria di Gesù, non erano tra le più incoraggianti, il Maestro di Nazareth ci invita ad avere fiducia nell’efficacia della Parola che lui è venuto a comunicare, la Parola di Dio.
Traiamo tale fiducia proprio guardando il comportamento del seminatore, egli è ben consapevole che non tutta la semente riuscirà a portare frutto, ma largamente getta i semi, fiducioso che la messe sarà altrettanto abbondante. È naturale che ci sorga una domanda: è possibile una resa del cento, sessanta e trenta per uno? Stando ad una oggettività dei fatti, sarebbe impossibile, anche oggi con le tecniche moderne si raggiunge al massimo il trenta. Allora perché la necessità di tale esagerazione? Tutto questo è tipico dello stile parabolico e Gesù se ne avvale per sottolineare la potenza della sua Parola per questo al v. 9 abbiamo l’invito all’ascolto. La Parola di Dio, viva ed eterna, è seme immortale; questo seme, ora sacrificato garantisce la vita per il futuro.
Mt sembra mettere l’accento sui singoli semi, piuttosto che sulla “parte”, come Mc e Lc, per invitare i lettori del suo vangelo a impegnarsi a portare frutti abbondanti, sostenuti dalla stessa Parola che come la pioggia idrata la terra e permette il germogliare del seme.
Attorno a Gesù, nei pressi del lago, non c’erano solo i discepoli, ma anche le folle. Ora una domanda lecita invade la mente e i cuori dei discepoli: perché parlare in parabole? La loro preoccupazione è quella che il messaggio non arrivi ai destinatari, o forse che esso sia travisato. La risposta di Gesù, differente nei sinottici, non lascia dubbio alcuno “poiché a voi è stato dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a quelli non è stato dato”, a causa dell’incredulità del popolo; frutto dell’indisponibilità ad aprirsi all’annuncio fatto da Gesù. Essi, i discepoli, sono dichiarati beati perché hanno sì accolto la sua Parola, ma anche condividono una comunione di vita che rendeva possibile un entrare a contatto con il disegno divino della salvezza attraverso la sua parola e le sue gesta. Molti profeti e giusti avrebbero voluto vivere tutto ciò che i discepoli avevano “a portata di mano”.
La spiegazione della parabola è una vera e propria parenesi; non si tratta quindi solo di ascoltare ma di comprendere, di assimilare questo annuncio del Regno, affinché diventi vita concreta di ogni giorno e la Parola non sia resa sterile. Dobbiamo però ricordarci che anche la comprensione della Parola è dono di Dio, non il frutto di uno sforzo mentale, poiché si comprende la Parola non solo con la mente, ma anche con il cuore. A tal proposito il v. 18 riecheggia lo Shemà, la preghiera del pio israelita, recitata due volte al giorno; anche il cristiano è invitato ad ascoltare la parola di Gesù, aprendosi con docilità e disponibilità.
I differenti tipi di terreno corrispondono alle diverse risposte date alla Parola; il terreno buono non lo è da sé stesso, ma il risultato delle cure del seminatore che ne prepara la terra. Solo la vera disponibilità ad accogliere la Parola, a farla giacere nei solchi, a darle spazio affinché germogli, fa sì che il frutto sia abbondante, subordinando ogni altro interesse alla fedeltà del vangelo.
Per essere terreno buono, facciamo nostre le parole della colletta:
“Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che continui a seminare miei solchi dell’umanità, perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno”
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