Meditazione Liturgia della Parola Giovedì Santo Messa in Coena Domini
Es 12, 1-8. 11-14
Sal 115
1 Cor 11, 23-26
Gv 13, 1-15
La celebrazione che si vive in questa giornata, inizia a svilupparsi intorno al IV secolo, quando a Gerusalemme si potevano celebrare i riti della passione, morte e resurrezione di Gesù nei luoghi in cui Lui stesso li ha vissuti; al contrario fino ad allora era un’unica celebrazione che si compiva la notte di Pasqua prevedendo un digiuno eucaristico dal Venerdì Santo alla celebrazione della notte di Pasqua.
Nello sviluppo del Triduo Santo, venerdì – sabato – domenica, si è sentiti l’esigenza di doversi soffermare anche sul mistero che si celebrava ogni giorno, su quel mandato che il Signore aveva consegnato durante l’ultima cena.
Dopo questo brevissimo excursus storico, vediamo ora cosa la Parola ci suggerisce come sputo per la riflessione e la vita personale. Non posso, in un contesto del genere, non fare riferimento, seppur in maniera breve, a tutte e tre le letture che la liturgia ci presenta.
Partendo dalla prima lettura, troviamo esplicitata il rito della Pasqua che gli ebrei celebravano annualmente. Questa Pasqua è considerata come pasqua profetica, cioè in preparazione a quella che poi vivrà Cristo nella sua incarnazione e missione. Ci troviamo ancora con il popolo schiavizzato dall’Egitto, Mosè si è già recato dal Faraone per chiedere di far uscire il popolo dalla terra, il quale però non lo concede. Il Signore Dio, per mostrare la sua onnipotenza, indurisce il cuore del Faraone e arrivato al momento opportuno decide di passare «per la terra d’Egitto» e colpire «ogni primogenito nella terra d’Egitto…così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto» (Es 12,12).
In questa Pasqua che gli ebrei dovevano celebrare, si richiedeva un agnello puro, maschio e in una celebrazione, che vedeva riunita tutta la comunità, veniva immolato; l’aspergere le porte con il sangue scaturito da questi animali serviva per indicare a Dio le case degli ebrei e così da non colpirli quando farà giustizia sugli egiziani. È un sangue di salvezza, il sangue che spargerà Cristo dalla Croce che donerà salvezza a quanti lo seguono.
Un primo spunto di riflessione su questo aspetto, è vedere come il Signore ci è accanto e ci sostiene nelle nostre fatiche e nelle nostre difficoltà. Il popolo d’Israele durante la schiavitù in Egitto penso che si chiedeva dove fosse Dio in quel momento, perché non interveniva, ma il Signore non è sordo, ascolta il grido del suo popolo (cf. Es 3,7) e al momento opportuno interviene.
Andando avanti nella nostra riflessione, nella seconda lettura, invece, leggiamo la ritualità che Gesù insegna ai suoi discepoli e a tutta la Chiesa per celebrare il memoriale della sua passione, morte e resurrezione. Cosa significa memoriale? Qual è la differenza con “memoria”? La memoria è un ricordo di un evento avvenuto in un determinato momento storico di cui si richiama solamente alla mente; memoriale, invece, non è un semplice ricordo, ma è un rivivere in prima persona l’evento accaduto; nel nostro caso la celebrazione eucaristica come memoriale della passione, morte e resurrezione è vivere la grazia che il Signore ha compiuto in quel determinato giorno e che si sta ripetendo in quella celebrazione, ogni volta che noi celebriamo l’Eucarestia Cristo dona in quel momento la sua grazia santificatrice che purifica e redime. Se nella celebrazione pasquale dell’Esodo l’agnello era offerto come sacrificio e poi mangiato, ora è Cristo il cibo spirituale della nuova Pasqua, è Lui l’agnello da sacrificare, l’agnello che «toglie i peccati del mondo» (Gv 1,27), come afferma Giovanni il Battista parlando ai suoi discepoli, e che per l’evangelista Giovanni è un elemento fondamentale, in quanto secondo i calcoli dei giorni della passione di Gesù da lui presentati, Egli sarebbe morto proprio il giorno in cui si uccidevano gli agnelli per il sacrificio.
In più, al contrario della pasqua ebraica, che vedeva la liberazione da una schiavitù concreta, quella dell’Egitto verso la terra promessa, con il memoriale lasciato da Cristo passiamo ad un altro tipo di liberazione, dall’essere schiavi del peccato passiamo alla libertà dei figli di Dio.
E poi cosa accade? Nel Vangelo non troviamo l’istituzione dell’Eucarestia durante l’ultima cena come uno spera di trovare, ma troviamo un altro racconto, quello della lavanda dei piedi. Per quale motivo la liturgia preferisce, in questo giorno così importante, prendere il racconto di Giovanni, che ci parla di un altro gesto, invece di prendere quello dei sinottici, che invece racconta dell’istituzione dell’Eucarestia? Una spiegazione potrebbe essere che, dato che il racconto si è già letto nella seconda lettura, allora risulterebbe essere una ripetizione? Sì, può essere, ma a me piace dare un significato più profondo che prettamente letterario, ovvero ricordare al lettore ciò che dovrebbe accadere dopo aver vissuto la Pasqua di Cristo, ciò che il nutrimento dell’Eucarestia comporta nella quotidianità, il mettersi al servizio.
Nel testo accade una cosa strana, Colui che si definisce il Messia, che si definisce come Figlio di Dio, come inviato dal Padre, cosa fa? Lava i piedi ai discepoli. La domanda e l’affermazione che Pietro pone a Gesù non sono poi così strani, ma ha un suo valore, ha un suo perché e anche abbastanza lecito in quanto quel gesto, che era riconosciuto dagli apostoli perché esisteva, era compiuto sempre da uno schiavo, ora siccome Pietro aveva riconosciuto in Cristo la figura del Messia atteso, anche se a modo suo, non poteva pensare che sarebbe addirittura arrivato a compiere un gesto che era riservato allo schiavo.
Cosa vuole indicare Gesù con questo gesto? Qual è il suo fine? Quel dono che il Signore ci ha fatto, donandosi a tutta l’umanità per la salvezza e di cui noi ci siamo nutriti e ci nutriamo ogni giorno nel Pane Eucaristico, possa diventare motivo di attenzione verso chi ci sta intorno, verso le persone bisognose, possa diventare servizio per il bene dell’altro. Ecco il perché prima sostenevo che più che una questione letteraria, un significato potrebbe essere un rendere concreto nella vita di ogni giorno quello che celebriamo; la liturgia ha preferito questo gesto invece che il racconto in sé dell’istituzione affinché quella frase che il sacerdote dice al termine della celebrazione, «la Messa è finita, andate in pace» (Messale Romano III edizione), diventi un vivere a pieno nella vita quotidiana il mistero di Cristo morto e risorto.
Alla luce di tutto questo, vogliamo prepararci a vivere la Santa Pasqua in quell’amore che il Signore ci ha donato nel suo morire e risorgere per noi e a portare la gioia di Cristo risorto e le meraviglie che compie nella quotidianità della vita.
Meditazione Liturgia della Parola Giovedì Santo Messa in Coena Domini
Es 12, 1-8. 11-14
Sal 115
1 Cor 11, 23-26
Gv 13, 1-15
La celebrazione che si vive in questa giornata, inizia a svilupparsi intorno al IV secolo, quando a Gerusalemme si potevano celebrare i riti della passione, morte e resurrezione di Gesù nei luoghi in cui Lui stesso li ha vissuti; al contrario fino ad allora era un’unica celebrazione che si compiva la notte di Pasqua prevedendo un digiuno eucaristico dal Venerdì Santo alla celebrazione della notte di Pasqua.
Nello sviluppo del Triduo Santo, venerdì – sabato – domenica, si è sentiti l’esigenza di doversi soffermare anche sul mistero che si celebrava ogni giorno, su quel mandato che il Signore aveva consegnato durante l’ultima cena.
Dopo questo brevissimo excursus storico, vediamo ora cosa la Parola ci suggerisce come sputo per la riflessione e la vita personale. Non posso, in un contesto del genere, non fare riferimento, seppur in maniera breve, a tutte e tre le letture che la liturgia ci presenta.
Partendo dalla prima lettura, troviamo esplicitata il rito della Pasqua che gli ebrei celebravano annualmente. Questa Pasqua è considerata come pasqua profetica, cioè in preparazione a quella che poi vivrà Cristo nella sua incarnazione e missione. Ci troviamo ancora con il popolo schiavizzato dall’Egitto, Mosè si è già recato dal Faraone per chiedere di far uscire il popolo dalla terra, il quale però non lo concede. Il Signore Dio, per mostrare la sua onnipotenza, indurisce il cuore del Faraone e arrivato al momento opportuno decide di passare «per la terra d’Egitto» e colpire «ogni primogenito nella terra d’Egitto…così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto» (Es 12,12).
In questa Pasqua che gli ebrei dovevano celebrare, si richiedeva un agnello puro, maschio e in una celebrazione, che vedeva riunita tutta la comunità, veniva immolato; l’aspergere le porte con il sangue scaturito da questi animali serviva per indicare a Dio le case degli ebrei e così da non colpirli quando farà giustizia sugli egiziani. È un sangue di salvezza, il sangue che spargerà Cristo dalla Croce che donerà salvezza a quanti lo seguono.
Un primo spunto di riflessione su questo aspetto, è vedere come il Signore ci è accanto e ci sostiene nelle nostre fatiche e nelle nostre difficoltà. Il popolo d’Israele durante la schiavitù in Egitto penso che si chiedeva dove fosse Dio in quel momento, perché non interveniva, ma il Signore non è sordo, ascolta il grido del suo popolo (cf. Es 3,7) e al momento opportuno interviene.
Andando avanti nella nostra riflessione, nella seconda lettura, invece, leggiamo la ritualità che Gesù insegna ai suoi discepoli e a tutta la Chiesa per celebrare il memoriale della sua passione, morte e resurrezione. Cosa significa memoriale? Qual è la differenza con “memoria”? La memoria è un ricordo di un evento avvenuto in un determinato momento storico di cui si richiama solamente alla mente; memoriale, invece, non è un semplice ricordo, ma è un rivivere in prima persona l’evento accaduto; nel nostro caso la celebrazione eucaristica come memoriale della passione, morte e resurrezione è vivere la grazia che il Signore ha compiuto in quel determinato giorno e che si sta ripetendo in quella celebrazione, ogni volta che noi celebriamo l’Eucarestia Cristo dona in quel momento la sua grazia santificatrice che purifica e redime. Se nella celebrazione pasquale dell’Esodo l’agnello era offerto come sacrificio e poi mangiato, ora è Cristo il cibo spirituale della nuova Pasqua, è Lui l’agnello da sacrificare, l’agnello che «toglie i peccati del mondo» (Gv 1,27), come afferma Giovanni il Battista parlando ai suoi discepoli, e che per l’evangelista Giovanni è un elemento fondamentale, in quanto secondo i calcoli dei giorni della passione di Gesù da lui presentati, Egli sarebbe morto proprio il giorno in cui si uccidevano gli agnelli per il sacrificio.
In più, al contrario della pasqua ebraica, che vedeva la liberazione da una schiavitù concreta, quella dell’Egitto verso la terra promessa, con il memoriale lasciato da Cristo passiamo ad un altro tipo di liberazione, dall’essere schiavi del peccato passiamo alla libertà dei figli di Dio.
E poi cosa accade? Nel Vangelo non troviamo l’istituzione dell’Eucarestia durante l’ultima cena come uno spera di trovare, ma troviamo un altro racconto, quello della lavanda dei piedi. Per quale motivo la liturgia preferisce, in questo giorno così importante, prendere il racconto di Giovanni, che ci parla di un altro gesto, invece di prendere quello dei sinottici, che invece racconta dell’istituzione dell’Eucarestia? Una spiegazione potrebbe essere che, dato che il racconto si è già letto nella seconda lettura, allora risulterebbe essere una ripetizione? Sì, può essere, ma a me piace dare un significato più profondo che prettamente letterario, ovvero ricordare al lettore ciò che dovrebbe accadere dopo aver vissuto la Pasqua di Cristo, ciò che il nutrimento dell’Eucarestia comporta nella quotidianità, il mettersi al servizio.
Nel testo accade una cosa strana, Colui che si definisce il Messia, che si definisce come Figlio di Dio, come inviato dal Padre, cosa fa? Lava i piedi ai discepoli. La domanda e l’affermazione che Pietro pone a Gesù non sono poi così strani, ma ha un suo valore, ha un suo perché e anche abbastanza lecito in quanto quel gesto, che era riconosciuto dagli apostoli perché esisteva, era compiuto sempre da uno schiavo, ora siccome Pietro aveva riconosciuto in Cristo la figura del Messia atteso, anche se a modo suo, non poteva pensare che sarebbe addirittura arrivato a compiere un gesto che era riservato allo schiavo.
Cosa vuole indicare Gesù con questo gesto? Qual è il suo fine? Quel dono che il Signore ci ha fatto, donandosi a tutta l’umanità per la salvezza e di cui noi ci siamo nutriti e ci nutriamo ogni giorno nel Pane Eucaristico, possa diventare motivo di attenzione verso chi ci sta intorno, verso le persone bisognose, possa diventare servizio per il bene dell’altro. Ecco il perché prima sostenevo che più che una questione letteraria, un significato potrebbe essere un rendere concreto nella vita di ogni giorno quello che celebriamo; la liturgia ha preferito questo gesto invece che il racconto in sé dell’istituzione affinché quella frase che il sacerdote dice al termine della celebrazione, «la Messa è finita, andate in pace» (Messale Romano III edizione), diventi un vivere a pieno nella vita quotidiana il mistero di Cristo morto e risorto.
Alla luce di tutto questo, vogliamo prepararci a vivere la Santa Pasqua in quell’amore che il Signore ci ha donato nel suo morire e risorgere per noi e a portare la gioia di Cristo risorto e le meraviglie che compie nella quotidianità della vita.
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