“Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza è invocherò il nome del Signore!”
Cari confratelli, cari giovani, oggi non ho che parole di gratitudine, sentimenti che mi portano a riconoscere che tutto in questi sei anni è stato grazia. Il Signore mi ha chiamato ancora e in questi due mesi circa in cui egli mi ha chiesto di lasciare la mia “terra”, sia come quando avevo 13 anni, per il Seminario minore, sia poi quando ne avevo 43, dopo anni dopo gli anni nella cara Chiesa diocesana per approdare qui a Molfetta, mi sono sentito come Abramo, sradicato ma fiducioso.
“Nulla chiedere e nulla rifiutare”: questa frase di san Francesco di Sales che amava tanto ripetere papa Giovanni, mi colpì molto quando in luglio visitai Sotto il Monte. Ero quasi certo che mi avrebbero ancora lasciato qui in Seminario, ma il Signore ha chiamato ancora, e non ho detto di no, come sempre ho fatto, fiducioso nella Sua Grazia. Non so ancora cosa mi attende: so che c’è il Signore, so che c’è la Chiesa, tutto il popolo di Dio. Ma so cosa lascio: una stupenda comunità con una meravigliosa équipe. Perfetti non lo sono né l’una, né l’altra; ma ho imparato che le cose e le persone perfette si lasciano contemplare a distanza, ma solo le persone con cui camminiamo, con cui condividiamo le imperfezioni, sono quelle che si lasciano amare. Lascio la Facoltà nella quale ho prestato servizio con amore, come ho potuto, ma credendo che la Puglia ha risorse da liberare. Ringrazio i miei docenti di un tempo, i miei colleghi di oggi: possiamo essere contenti di quello che abbiamo costruito. Perdonate quale mia defiance! Continuate così, puntate alto! Non ho mai voluto disgiungere la formazione dall’insegnamento, semplicemente per essere me stesso! Ho cercato di tenere insieme le due cose, con equilibrio, in una fase di passaggio notevole per le nostre istituzioni accademiche. Credo di aver fatto una scelta costruttiva.
Quando mi insediai come rettore il 22 maggio 2009, portavo nel cuore tante trepidazioni; portavo nel cuore la parola di don Tonino Ladisa, che in un colloquio, mesi prima, mi aveva detto delle frasi che mi aiutavano ad accettare il ministero di rettore. Lui, don Franco, don Pierino e don Salvatore sono dei cari intercessori, che sento vicini. Quel giorno in questa cappella dissi due cose: “Vengo qui per restituire. Voglio aiutarvi a formarvi secondo lo spirito del Concilio Vaticano II”. Sentivo di dover restituire quanto i miei educatori – ricordo in particolare il rettore don Agostino, don Pio, don Franco – mi avevano dato in termini di affetto e di formazione. Sono stato in questo seminario ai tempi di grandi trasformazioni educative, i cui segni permangono ancora; erano i tempi di don Tonino Bello, e anche in seminario di godeva della sua profezia. Tanti episodi della sua presenza in questa città di Molfetta, anche piccoli e significativi, sono per me ancora oggi un esempio per la vita e il ministero.
Insistevo sul Concilio, quel 22 maggio; allora si parlava più di discontinuità col passato, c’era chi voleva tornare indietro. No, non si può tornare indietro sulle strade che indica lo Spirito Santo: la frasi del Concilio Vaticano II abbiamo fatte incidere sulla pietra, perché le abbiate sempre sotto i vostri passi.
E poi è iniziato un cammino. Non posso non leggerlo alla luce della Parola del giorno, quella Parola che interpreta la nostre gioie e i nostri affanni. Il Vangelo di Zaccheo mi dice una grande verità: il Seminario è un sicomoro. Il Seminario è quell’albero su cui saliamo per incontrare il Signore; ma è anche il terreno su cui ci invita a scendere; è la sala del banchetto con Gesù e i fratelli. Il Seminario è luogo di crescita, di formazione; in definitiva luogo di conversione e di incontro col Signore. Quante volte il Signore mi ha fatto scendere dal sicomoro e si è fatto incontrare nella vostra storie! Quante volte è venuto ad abitare in casa nostra. Questo è il Seminario. Questo incontro che salva. Cari miei, quanto vi devo: ve ne sarò per sempre grato.
Vedete il Seminario disseminato di ellissi: sono l’immagine della relazione educativa tra noi e Dio, tra noi e gli altri. Ricordo che in un incontro per formatori organizzato da don Gianni ad Ostuni, Sovernigo ci fece fare un esercizio che è diventato la chiave di volta di tante scelte. Un formatore più grande – in quel caso io – presentava un suo programma; un altro formatore chiedeva di essere coinvolto, in uno spazio simbolico, quello di un tappeto. Io lo accolsi non mettendolo al lato, ma facendo sì che il centro fosse lo spazio del dialogo, quella linea che può intercorrere tra i due fuochi di un’ellisse. In questi anni non con tutti si è creata questa ellisse, anche e soprattutto per colpa mia. Guardando quelle ellissi, imparate a non mettervi mai al centro, ma a far sì che il centro sia Gesù Cristo, il suo Vangelo, il dialogo.
Il vecchio Eleazaro, nella prima lettura, ci indica un ultimo impegno: lasciarvi una eredità. Vi ho incontrati uno per uno in queste settimane, eccetto il primo anno, con cui però ho condiviso una giornata insieme. Ho preferito dirvi qualcosa di personale; ed anche voi l’avete fatto con me. Qualcuno mi ha scritto: gli risponderò.
Ma ora lasciate che vi consegni uno scritto che ho intitolato παράδοσις:
Carissimo,
cosa consegnarti al termine di questo tratto di strada fatto insieme? Ti consegno questa immagine a me molto cara, nella quale vorrei lasciarti il senso di quella che è la nostra esperienza di vita con Cristo. Mi soffermai a lungo davanti ad essa, nel 2006, nella Saint Paul Cathedral di Londra, e mi riportò in sintesi a tutta la mia storia di vita e di chiamato.
E’ una interpretazione pittorica di Ap 3,20: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. “Cristo è raffigurato con gli abiti sacerdotali e con una corona regale: è re e sacerdote. Sul suo capo non c’è solo una corona d’oro, ma anche una di spine di ulivo. E’ il Cristo che nel mistero della sua Pasqua ha svelato il vero senso della sua regalità, è il Principe della Pace. Eppure questo Re, in sontuosi abiti, entra nella storia, nella mia, nella tua, bussando umilmente alla porta, aspettando pazientemente dietro di essa che uno spiraglio si schiuda. E’ un re, ma si fa servo:” Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Il fulcro della composizione pittorica è la lampada che arde di una luce fioca, illuminando un luogo desolato e immerso nella penombra, che vogliamo immaginare essere non un tramonto, ma un’alba. La lampada contiene il dono del Re, la luce: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv1,4-5). La porta è sigillata da tempo: rovi, sterpaglie secche, erbe rampicanti si sono assiepate e ostruiscono il passaggio. Eppure il Re non si scoraggia e continua a bussare. Cosa accade dietro la porta? C’è esitazione e timore di aprire. Ma arriva il momento- e per questo io prego- che come la sposa del Cantico dei Cantici, chi è all’interno esclama: “Un rumore! E’ il mio diletto che bussa.” (Ct 5,2) E gli apre!
Carissimo, ti lascio questa immagine e la testimonianza che vale la pena spalancarGli la porta della nostra esistenza: Egli ci dona la vita, che è la luce degli uomini. Ce la ridona ogni volta che la offuschiamo. E con essa ci dà la grazia di portare la Sua vita al mondo, con il suo stesso stile di servi che bussano pazientemente e con amabilità.
Al termine del mio percorso di formazione mi accompagnò un brano di PO: “Spetta ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori nella fede, di curare, per proprio conto o per mezzo di altri, che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione personale secondo il Vangelo…”(n. 6). E’ stata la mia vita fin qui e di essa porterò i tratti per sempre. Ringrazio Dio. E ringrazio i miei confratelli presbiteri e tutti i miei seminaristi: mi avete permesso di vivere la vocazione a cui Dio mi ha chiamato. Mi avete permesso di farlo anche nei mie miei errori di cui vi chiedo ancora scusa. Avete aiutato il mio continuo cammino di conversione. Auguro a tutti di divenire “educatori nella fede” nella maniera unica ed efficace della paternità. La paternità è la nostra comune vocazione. Sarò felice quando sentirò dire di te: “E’ come un padre…” Saprò che stai rispondendo alla la Sua chiamata.
E infine mi raccomando: affidati ai tuoi formatori, a don Gianni che raccoglie il mio testimone: sappi voler bene a lui e a loro come ne hai voluto a me, anzi di più. Non mi dispiacerà di quel “di più”.
Maria di Nazareth, Regina Apuliae e Mater amabilis, che nell’abbraccio del Suo Figlio veglia su di noi, ci tenga tutti per mano.
Con affetto, tuo in Cristo,
don luigi
Carissimo don Luigi,
attraverso questa Eucaristia abbiamo reso grazie con te al Signore per i suoi innumerevoli doni ed in particolare per il tuo ministero tra noi; ma ora permettici di rivolgere un sincero ringraziamento anche a te, che in questi sei anni abbondanti hai guidato con sapienza e amore questa nostra comunità di giovani chiamati dal Signore.
Come padre premuroso e attento hai sostenuto e qualificato il nostro personale “Eccomi!” al Signore, che, come ebbe a dire lo scorso anno Mons. Sigismondi, suona come «l’antifona al nostro Magnificat quotidiano». Guardandoti come sacerdote visibilmente catturato dallo sguardo di Cristo, possiamo vedere concretizzarsi il tuo detto: Verba movent, exempla trahunt… Trascini davvero, don Luigi! Trascini al meglio, trascini a mete alte, perché come ci hai sempre ripetuto, non siamo fatti per la mediocrità, ma per orizzonti ampi, anzi universali, restando però con i piedi per terra. Hai scommesso, infatti, con noi sulla nostra umanità, la stessa dei giovani di oggi, con le sue ferite e con i suoi slanci, con i suoi dubbi e le sue certezze, portandola a fiorire e a spandere quei singolari profumi che, nella loro diversità, ti hanno fatto respirare la bellezza dell’essere Chiesa.
Ma ora, ad onor del vero, concedici di riconoscere qualche nostro merito: pur essendo guida e padre, non hai mai esitato a camminare con noi, accanto a noi, lasciandoti contagiare dalla freschezza di questa comunità, che ogni anno genera al ministero e accoglie nuovi germogli di vocazione. Il nostro sguardo acceso di entusiasmo, forse non molto diverso da quello dei primi chiamati, ha riportato anche te su quella riva, nel luogo del primo innamoramento, laddove ciascuno di noi ha goduto, almeno per un istante, dell’intensità dello sguardo del Maestro.
Chi si arricchisce di questo sguardo, e tu lo sai bene, non smette mai di essere quello che è, ma inizia ad essere quello che Lui vuole; e come figli, oggi, possiamo attestare che sei un pastore secondo il cuore di Cristo: è per questo che gioiamo con te e per te del nuovo ministero che il Signore ti affida.
Certo, le nostre labbra si aprono al sorriso, ma i nostri occhi tradiscono la difficoltà di doverti salutare…E che potremmo dire? Resta ancora con noi? No! Anche in questo ci sei da maestro: come l’Arcangelo Gabriele, hai svolto il tuo compito, hai fatto sì che Cristo davvero ci cambiasse la vita… E ora, delicatamente, parti da noi.
Grazie, perciò, don Luigi, perché per ciascuno sei stato un vero padre e, in quanto tale ci hai accompagnati a muovere i nostri primi passi di discepolato e per molti anche di ministero, sapendo intervenire con la tua discrezione al momento giusto senza mai farci sentire giudicati; un padre che ha saputo farsi prossimo, ma anche fare un passo indietro, quando ti accorgevi che riuscivamo a stare almeno in piedi. Ti ricorderemo come il Battista che ha saputo indicarci dove fosse l’Agnello nelle nostre vite, e come il Padre misericordioso che guarda da lontano il figlio che, libero, si allontana scegliendo la propria strada, ma che rimane lì sulla porta di casa, pronto ad accoglierlo al sospirato ritorno.
Grazie per aver saputo intrecciare bene il lavoro serio della quotidianità con il ristoro delle feste e delle serate in allegria, in cui ci hai insegnato e mostrato nella semplicità della convivialità, la forza trainante della gioia di chi dona la sua vita a Cristo (ti ringraziamo anche per li rafanid i r mlangin che sempre ci donava l’urt du smnarj).
Grazie perché hai saputo trasmetterci la passione per il mondo, per la cultura, per l’arte, la letteratura, dimostrandoci chiaramente come essere preti significa anzitutto conoscere l’uomo in pienezza e nella totalità. Grazie perché ci hai fatto gustare nel tuo insegnamento di Teologia Morale, arricchito e allietato dalle tue simpatiche gaffes, la bellezza di un Dio che si fa incontro all’uomo, sollevandolo da pesi e fardelli o catene e prigioni che egli stesso si autoimpone, quando fa della sua libertà non un ponte per giungere a Dio, ma un precipizio in cui perdersi.
Grazie perché tu stesso ti sei fatto testimone di come per far fiorire l’umano si inizia dalle cose più semplici: da un abbraccio, da una stretta di mano, dall’attenzione verso tutti, dal sorriso…Sì, quel sorriso che porteremo stampato nel cuore, un sorriso contagioso capace di far sentire anche a chi, nel nostro cammino ha vissuto momenti faticosi e di prova, la carezza e la tenerezza di Dio.
Grazie per la cura che hai riversato per ciascuno, custodendo le nostre storie, le nostre vite nel tuo cuore: l’amore per la verità e la lungimiranza del profeta ti hanno aiutato a fare delle nostre fragilità, veri trampolini di lancio; dei nostri limiti, luoghi dove Dio manifesta continuamente la sua Onnipotenza e così ci hai aiutato a scrivere giorno dopo giorno il nostro personale Magnificat.
Grazie perché hai mostrato di essere un educatore esigente anzitutto con te stesso, suscitando nei nostri cuori la sana inquietudine di chi sa bene che, un giorno, non potremo esigere dal popolo di Dio ciò che noi per primi non siamo riusciti ad ottenere o non abbiamo voluto chiedere a noi stessi: una bella lezione di umiltà, questa, e allo stesso tempo, sprono ad una sempre maggiore responsabilità.
Grazie perché con la tua autoironia e capacità di scherzare su te stesso ci hai invitato ad amare noi stessi pienamente, facendo dono di tutto quello che siamo a Dio e ai nostri fratelli, consapevoli di non essere mai dei discepoli “arrivati”, ma capaci ancora di stupirsi di fronte alle imprevedibili novità di Dio, mettendo in conto la possibilità di sbagliare, così come a volte è capitato a te.
Tuttavia hai sempre mostrato come sia bello e rigenerante riconoscere i propri errori, anche se questo a volte ha richiesto fatica, e saper chiedere scusa, guardandoci negli occhi, da pari, senza farci sentire il distacco del ruolo o il peso dell’autorità.
Grazie per aver condiviso con noi la preghiera, soprattutto stando in ginocchio davanti all’Eucaristia e davanti alla Regina Apuliæ: al termine del giorno eri lì ad affidare a Gesù e a Maria le tue ansie e le tue preoccupazioni, ma anche i piccoli successi e le nostre stesse conquiste e vittorie, ponendo tutto sotto il loro sguardo.
Grazie anche p
er quella lampada accesa in direzione sino a sera tarda, segno tangibile del consumarsi di un presbitero nella e per la comunità e per i singoli volti, storie e vite, affidategli da Dio.
Grazie, insomma, per averci testimoniato che è bello essere preti per Cristo e per la Chiesa!
Infine, come nostro augurio, ti affidiamo in forma riadattata le splendide parole di don Tonino Bello che riprende quanto Sant’Agostino vescovo, presentandosi al popolo con i suoi presbiteri, diceva: «Pascimus vobis et pascimur vobiscum, utinam pro vobis mori possimus» (Siamo pastori per voi e siamo con voi nutriti affinchè possiamo morire per voi).
Pascimus vobis: don Luigi ti auguriamo di non dimenticare mai, ora che sei Vescovo, quel giorno lì sul lago della tua Galilea, laddove Gesù ti chiamò nella tua povertà; ora, continuerai a seguirLo stando di fronte al gregge, in una posizione scomoda, perché dovrai rapportarti col popolo così come col suo popolo si rapporta Gesù, in un amore senza limiti, proprio di un cuore indiviso!
Pascimur vobiscum: ti auguriamo, don Luigi, di ricordare sempre il fragrante odore del popolo: che tu ti possa sempre lasciar commuovere dalla voglia di stare insieme al gregge, condividendo le gioie e le fatiche del cammino di ciascuno, lasciandoti scalfire il cuore dal belato delle pecorelle più lontane o difficilmente raggiungibili dalla voce di Cristo, buon Pastore; che tu abbia la capacità di spingere col bastone l’ariete più lento, portare in grembo l’agnello appena nato e rallentare il passo per attendere la pecora madre.
Utinam pro vobis mori possimus: nel tuo nuovo ministero, possa tu consumarti per il bene dei fratelli e quando vedrai l’inutilità dei tuoi sforzi, avendo la sensazione di aver faticato tutta la notte senza aver preso nulla; quando ti accorgerai di avere braccia troppo corte per rispondere ai bisogni della gente, chiedi al Signore di dare tutto quello che sei con gioia, sapendo che quel gregge appartiene anzitutto a Lui.
Auguri di cuore da tutta la tua comunità!
I tuoi seminaristi