L’importanza dello studio nella formazione della vita presbiterale è legata inscindibilmente alla sequela di Cristo quale risposta dinamica e aperta alla vocazione che abbiamo ricevuto. La nostra risposta a Dio non si configura, però, anzitutto come una “corrispondenza” tra la realtà che percepiamo con i sensi e la nostra intelligenza, bensì come l’apertura del cuore, libera e disarmata, a Colui che dal trono della croce ci ripete: «Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele» (Ger 31, 3). Questa esperienza si avverte nella coscienza come l’essere consegnati, all’improvviso e senza riscatto, alla nostra libertà e responsabilità, l’una e l’altra costituenti un’unica realtà. Si tratta di un appello inappellabile che avvolge tutta la nostra esistenza e non permette vie di fuga, né scusanti. Eppure, subito dopo si scopre che esiste un’altra dimensione della fede, quella interpersonale, riguardante il rapporto non solo con i contemporanei, ma con quanti ci hanno preceduti in passato. Si tratta di quella Tradizione “viva” a cui ci richiama il Vaticano II, ovvero del dialogo diacronico e sincronico tra le generazioni e che riguarda anche noi docenti e voi seminaristi. Lo studio ha a che fare, dunque, con questo processo performativo di trasmissione della fede che ha da fronteggiare risolutamente l’attuale profonda crisi antropologica. Essa ci sprona a scegliere, in estrema sintesi, tra solidarietà o solitudine, tra progresso individuale cumulativo o sviluppo integrale relazionale e concerne non solo le economie, ma i saperi. Già Socrate metteva in guardia da quel conoscere fondato sull’autorità della scienza. Egli cercava piuttosto di diffondere l’amore per la ricerca libera, l’apertura della mente, l’arte di declinare insieme capacità di giudizio e di azione. In poche parole, si tratta di scegliere – come scrive Michel de Montaigne – tra noblesse du cœur e grandeur. Ecco il punto focale: lo studio nella formazione dei presbiteri è al servizio di questa “nobiltà del cuore” che si esprime nel rifiuto di ogni servilismo o carrierismo, nel rispetto di sé e del popolo affidato, prendendo le distanze da ogni cieco tradizionalismo e lasciandosi invece “trafiggere” (cf. Zc 12,10; Gv 19,37) il cuore e la mente da quanti incontriamo? Scrivendo sull’educazione dei fanciulli a Madame Diane de Foix, contessa di Gurson, ancora de Montaigne segnalava quanto fosse «meglio educare un uomo intelligente che uno studioso. (...) È preferibile, infatti, egli abbia una testa ben fatta piuttosto che una testa molto piena. E se entrambe le qualità da lui sono richieste, abbia più valore morale e intelligenza che conoscenza. (...) Il maestro chieda al suo allievo non solo di ripetergli le parole della sua lezione, ma di dargli il significato e la sostanza. E giudichi il profitto che ne avrà ricavato, non dalla testimonianza della sua memoria, ma da quella del suo comportamento. (…) Rigurgitare il cibo così come è stato deglutito prova che è rimasto crudo senza essersi trasformato: lo stomaco non ha svolto il suo lavoro, se non ha mutato lo stato e la forma di ciò che gli è stato dato da digerire» (Essais, I, 26). Da parte mia, sono anch’io persuaso che lo studio continui a correre un simile rischio: trasformarsi in un cumulo indigesto di enunciati che invece di accendere la “passione” per la Verità – che per i teologi e le teologhe è il Risorto – lo renda insopportabile a noi e a quanti ci stanno attorno. «Quo alibi divina eloquia, – ci domanda s. Gregorio Magno – nisi ad corda hominum vadunt?» (In Ezechielem, 1,6,16). Riusciremo nell’impresa, studenti e noi docenti, di attingere proficuamente alla Sophia di Dio (cf. 1Cor 1,18-25)? A questo punto, non possiamo far altro che ridare la Parola a Dio attraverso la preghiera: “Donaci, Spirito Santo, di praticare lo studio in cui si applicò la Vergine Maria, Regina apuliae, la quale serbò gli eventi della vita «meditandoli» (gr.: sym-bállõ) nel suo cuore (cf. Lc 2,19), non «dividendoli» (dia-ballō), ma rintracciando quel contesto in cui tutto ciò che ci accade trova senso, quello del Tuo amore, lo stesso con cui ci amiamo”.
prof. Vincenzo Di Pilato
Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie