Nell’enciclica Dilexit nos, Papa Francesco invita ad una riflessione profonda sull’era dell’intelligenza artificiale (IA), un’epoca in cui il progresso tecnologico sembra sfidare i confini del possibile (cf. n.20). Tuttavia egli ci ricorda una verità essenziale: per “salvare l’umano” non bastano gli algoritmi, ma servono poesia e amore. Ciò che definisce la nostra umanità, infatti, non è replicabile in un codice binario.
Il Papa evoca piccoli gesti ordinari della vita e ci aiuta a considerare che l’intimo dell’essere umano si trova in qualcosa che sfugge alle macchine: la tenerezza, il ricordo e la bellezza dell’imperfetto.
L’intelligenza artificiale è senza dubbio uno degli strumenti più potenti creati dall’uomo: permette diagnosi mediche avanzate, ottimizza sistemi complessi e genera perfino contenuti che sembrano avvicinarsi alla creatività umana. Ma, come ogni tecnologia, porta con sé una domanda etica fondamentale: che cosa significa essere umani in un mondo dove le macchine sembra diventino sempre più “intelligenti”? Ed inoltre: cosa significa davvero essere “intelligenti”?
Nessuna IA, per quanto avanzata, potrà mai replicare l’intensità di un ricordo d’infanzia, quella trama unica e irripetibile di emozioni, colori e suoni che alberga nel cuore umano. Questi dettagli – come il Papa pare suggerirci – non possono essere tradotti in meri dati. Un algoritmo può simulare azioni, ma non può comprendere la risonanza affettiva che un particolare oggetto assume nelle mani di un bambino che impara accanto alla propria madre o nonna.
La tenerezza, infatti, non è solo un’emozione: è un’esperienza che radica l’individuo nella comunità e nella memoria, raccordando un legame tra le generazioni. È qui che l’intelligenza artificiale trova un limite invalicabile: non può creare poesia dal nulla, perché la poesia nasce dall’esperienza vissuta e nell’amore.
La poesia e l’amore sono ciò che Papa Francesco definisce come necessarie per "salvare l’umano". La poesia, intendiamoci, non è solo il linguaggio dei versi scritti, ma è quella capacità di vedere oltre la superficie delle cose, di scorgere eccedenze di senso nell’ordinario. Amare, d’altra parte, significa entrare in relazione, accettare la vulnerabilità, e maturare nell’incontro con l’altro.
Queste esperienze non possono essere simulate da una macchina: richiedono un corpo e una memoria personale. Un’intelligenza artificiale potrà magari scrivere una poesia tecnicamente perfetta, ma non potrà mai provare il palpito del primo amore, la comprensione in quel dolore che ci schianta, la gioia di un abbraccio inaspettato. L’IA può riconoscere schemi e produrre risposte plausibili, ma non può “ricordare” quello che non ha mai vissuto.
In un mondo in cui la pervasività e la presenza della tecnologia aumenta, il rischio è forse di lasciarci affascinare dalla perfezione artificiale, dimenticando la fragile bellezza dell’imperfetto. Gli algoritmi possono essere strumenti efficaci per il bene comune, ma è anche necessario lasciare spazio alla potenza silente della vita. Come ci ricorda Papa Francesco,
la salvezza dell’umano risiede nei piccoli gesti autentici.
Questi momenti, ordinari e straordinari al
contempo, costituiscono la tessitura della nostra
esistenza. Essi sono capaci di ancorarci a ciò che
è autentico. E se è vero che la tecnologia può
migliorare molti aspetti del nostro vivere,
è altrettanto vero che essa dipende da ciò che
non può produrre: la capacità umana di amare e
di ricordare. Nel nostro abitare la complessità
del tempo, il compito dell’essere umano è di fare
in modo che le tecnologie siano al servizio della vita.
Prossimità, memoria, capacità di vedere oltre: il Papa
ci invita a non dimenticare ciò che ci rende umani.
A non perdere di vista che noi conosciamo, come diceva
María Zambrano, attraverso i chiari del bosco.
Forse, il limite dell’IA di non poter sostituire il cuore
umano è il suo più grande dono: porci davanti
il fatto che quello che davvero conta non può
essere calcolato, ma solo vissuto generosamente.
don Antonio Bergamo, Arcidiocesi di Lecce