Quando don Mimmo è uscito per l’ultima volta da questa Cattedrale, portato sulle spalle dai suoi confratelli sacerdoti, il Maestro di Cappella ha intonato dall’organo le note del “Palmieri”, la marcia funebre con cui Cristo morto, il Venerdì Santo, rientra in chiesa al termine della processione.
Ascoltando le note della marcia, qualcuno si è interrogato sui motivi di quella scelta, perché non era in grado d’immaginarla. Sicuramente non aveva mai visto da vicino, il Venerdì Santo, le guance di don Mimmo rigate dalle lacrime all’udire quella musica struggente, legata a un momento d’intensa pietà e di commozione. Perciò non poteva comprendere fino in fondo i sentimenti di un prete che, seppure acuto nelle sue speculazioni teoretiche, sempre è rimasto semplice, schietto e sincero, mai affettato, nel suo legame d’amore con Cristo. Un amore infuso nel suo cuore sin dalla più tenera età e alimentato tramite la fede autentica di suo padre e di sua madre.
In tanti hanno pianto intorno alla sua bara, mentre gli amici più cari le sono rimasti abbracciati fino all’ultimo gradino del sagrato, quasi a non volerla lasciare andare via.
«Consummatus in brevi, explevit tempora multa; placita enim erat Deo anima illius» (Sap 4,13-14). Sono le parole tratte dal libro della Sapienza che abbiamo poc’anzi ascoltato: «Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo. (…) Giunto in breve alla perfezione, ha compiuto una lunga carriera. La sua anima fu gradita a Dio» (Sap 4, 7.13-14).
È lo stesso brano che viene proclamato nella messa del nostro Patrono, probabilmente per alludere alla morte prematura dell’eremita Corrado, il quale, ancora giovane – così come canta l’antifona al Magnificat della sua festa – «penetravit in sancta», entrò in paradiso. Egli era giunto rapidamente al compimento del suo cammino alla sequela di Cristo, perciò fu rapito agli uomini, perché «Divenuto caro a Dio, fu amato da lui» (Sap 4,10).
Come si fa a non scorgere talune analogie con quanto noi stessi abbiamo vissuto con l’agonia e la morte di don Mimmo? «I popoli vedono senza comprendere» (Sap 4,14) – continua la Sapienza – ed anche noi siamo rimasti attoniti, perché abbiamo perso inaspettatamente un amico fraterno che ci voleva bene, ma non siamo riusciti a scorgere che cosa si nascondesse nella filigrana di un evento, che proiettava dinanzi ai nostri occhi il profilo temibile della morte. Forse anche noi abbiamo pronunciato nel nostro intimo le parole di Marta: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (Gv 11,21).
Eppure anche Gesù è morto, e la sua morte è rimasta incompresa dai suoi amici, anzi è stata intesa alla stregua di un infame fallimento…, ma si trattava di un equivoco. Lo spiegava don Mimmo, al mattino del Venerdì Santo di due anni fa, quando, al centro di questo presbiterio, predicava a noi preti sul mistero della croce e commentava l’antifona che il coro avrebbe cantato nel pomeriggio all’inizio dell’adorazione della croce: «Adoriamo la tua croce, Signore, lodiamo e glorifichiamo la tua risurrezione. Per merito della tua croce la gioia si è diffusa su tutto il mondo».
«Oggi – affermava don Mimmo – noi siamo invitati a fermare la nostra esistenza, quasi a sospenderla di fronte al mistero della croce e a chiederci: come è possibile che dalla croce possa venire la gioia, il gaudio e la letizia? (…) Sì, proprio dall’albero della vita la gioia è venuta nel mondo. Ma quanto è difficile annunciare questo gaudio attraverso la nostra vita e il nostro ministero. (…) Questo pomeriggio, quando staremo davanti alla croce nella nostra singolare condizione, spogli di ogni nostro orpello e di ogni nostra sovrastruttura mentale, nella nudità di Cristo potrà rispecchiarsi la nudità della nostra coscienza e della nostra anima. E solo se sapremo accogliere quella croce, senza rifiutarla, o aggirarla, senza tentennamenti o infingimenti, attraverso le feritoie delle piaghe dolorose di Cristo potremo intravedere la luce della risurrezione» (Omelia all’Ufficio delle Letture del Venerdì Santo 2013).
E poi concludeva: «L’invito di Gesù a prendere ciascuno la propria croce, non può risolversi né in un atto stoico, né in un atto eroico. È piuttosto l’invito a salire al cielo attraverso la croce (…). [Essa] è scala per salire al cielo, non usandola per arrampicarsi su di essa, ma è scala che ci dischiude il cielo quando entriamo e ci nascondiamo nel costato di Cristo».
Quanti di noi, anche quest’anno, hanno visto don Mimmo, il Venerdì Santo, prosternarsi, scalzo e con fatica, dinanzi alla croce deposta davanti a questo altare e baciare il costato del Crocifisso, con le lacrime agli occhi. Egli attendeva che il coro intonasse gli Improperia, i Lamenti del Signore, e con non poca difficoltà riusciva a sollevarsi dal pavimento, dopo aver reso omaggio a Colui che regna appeso ad un legno.
«Noi suoi ministri – continuava nella sua predica – che quotidianamente siamo associati al sacrificio eucaristico, memoria del sacrificio della croce, siamo chiamati, come ci ricorda l’Apostolo, a portare continuamente nel nostro corpo i patimenti di Gesù morente, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale (cf 2Cor 4,10-11). Per questo nel sacrificio della messa – come ci ricorda il Concilio – preghiamo il Signore che, “accettando l’offerta del sacrificio spirituale”, faccia “di noi stessi un’offerta eterna” (Sacrosanctum Concilium 12)».
Per amore di Cristo don Mimmo ha perso la sua vita e ne ha fatto un’offerta sacerdotale per il bene della Chiesa e di questa Chiesa, che egli amava quasi morbosamente e di cui si sentiva figlio. Si è avvinto alla croce per entrare nel costato di Cristo.
L’anno prossimo, in questa Cattedrale, avremmo voluto preparare per don Mimmo una grande festa,… storica. Invece, all’ottavo giorno della sua agonia, a noi, suoi fratelli è toccato di deporre il suo corpo dalla croce e di prepararlo per la sepoltura. Nudo, sul bancone dell’obitorio – quasi fosse la “Lastra dell’unzione” – piangendo lo abbiamo rivestito degli abiti sacerdotali dal colore violaceo, il colore della penitenza, cioè dell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, per dare la ricompensa ai suoi servi fedeli.
A noi, rimasti qui, anche stasera Gesù ha detto: «Tuo fratello risusciterà» (Gv 11,23).
Don Mimmo è morto nel giorno di San Francesco ed umilmente è stato sepolto nella nuda terra. Ciascuno di noi gli è debitore di qualcosa, ed io, in particolare, di un affetto incomparabile che custodirò nel segreto del mio cuore, e soprattutto gli sono debitore delle preghiere che non ha mai cessato di elevare per la mia vita e per il mio sacerdozio. Non potrò mai ripagarlo per quanto ha fatto per me. Posso solo ringraziare il Signore per avermi dato un fratello sacerdote davvero ineguagliabile. E siccome stasera non posso intonare il Te Deum, lasciate che dica col cuore:
«Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate» (Cantico delle creature).